LA CRISI FINANZIARIA MONDIALE

I fatti

 

Come tutti ormai sanno, il decollo della crisi può essere datato nell’estate del 2007. Cominciano ad emergerele prime crepe sul fronte dei mutui sub-prime1 . Va in crisi Countrywide, uno dei primi operatori americani nel campo dei mutui immobiliari. Emergono dei buchi neri nei fondi comuni che hanno investito in questo tipo di bond. Si comincia a capire che nelle obbligazioni scaturite dalla cartolarizzazione dei mutui americani sono nascoste delle trappole infernali, dei crediti inesigibili, creati e smaltiti rapidamente sui mercati mondiali, come sistema di ripartizione del rischio in base a modelli quantitativi, matematici, incomprensibili e pericolosi. Una serie di fondi hedge2 comincia a trovarsi in difficoltà, Goldman Sachs ne deve chiudere un paio con perdite molto rilevanti per i clienti che vi hanno investito. La francese AXA blocca i riscatti di tre fondi, apparentemente a basso rischio, perché non è più in grado di stabilirne il prezzo di quotazione. Nella prima quindicina di agosto 2007 le borse cominciano a scendere precipitosamente. Le banche centrali devono intervenire ripetutamente per fornire liquidità al sistema: dopo Ferragosto la FED taglia aggressivamente il costo del denaro, dimostrando di avere ben chiara la gravità della situazione. In Gran Bretagna rischia di fallire la Northern Rock, l’ottava banca del paese, specializzata in mutui. La Bce tiene duro sui tassi, continuando a ripetere che il pericolo principale è l’inflazione e l’obiettivo principale è la stabilità dei prezzi. Una serie di banche comincia ad effettuare svalutazioni del proprio portafoglio titoli, cercando di diluire le perdite su più trimestri e su più esercizi fiscali. Tra queste UBS, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Goldman Sachs, Citibank. All’inizio sembra quasi una strategia per ottimizzare il carico fiscale, approfittando della situazione per pagare meno tasse. Fino alla fine di ottobre sembra in atto un recupero delle quotazioni borsistiche. Poi arriva la terza trimestrale di Citibank e si comincia a capire che le perdite sono molto più alte del previsto, che la situazione è seria e che non si tratta di una semplice e fisiologica correzione periodica delle quotazioni azionarie. Molte banche devono effettuare massicce svalutazioni nell’investment banking e ricorrere ad enormi aumenti di capitale per rinsaldare i patrimoni di vigilanza; tra essi la svizzera UBS, uno dei colossi mondiali, costretta a due aumenti di capitale che fanno entrare nella compagine sociale i fondi sovrani di Abu Dhabi e Singapore, così come Morgan Stanley, che deve aprire a capitali arabi, cinesi, giapponesi.La crisi sembra ancora leggibile come conseguenza di gravi errori di singole banche, che hanno volutocrescere troppo in fretta, perseguendo risultati strabilianti, e per farlo hanno tenuto comportamenti eccessivamente aggressivi: cadono le prime teste, vengono sostituiti i dirigenti di Morgan Stanley, Citibank, Ubs, Merrill Lynch, che se ne vanno tra le polemiche con liquidazioni leggendarie. Le quotazioni però continuano a scendere, c’è una forte tensione sul mercato interbancario, le banche non si fidano a prestarsi denaro tra di loro, scompare la fiducia e si blocca il normale funzionamento del mercato monetario. C’è crisi di liquidità, solo le banche centrali riescono a tenere oliati i meccanismi con abnormi immissioni di liquidità nel sistema. I fondi sovrani che sono entrati nel capitale delle banche in crisi continuano a vederne scendere i titoli e bloccano ogni eventuale nuova operazione. Chi ha riserve in cassa preferisce tenersele, aspettando gli avvenimenti. A inizio 2008 la caduta delle borse accelera, cominciano a circolare voci di banche in forte difficoltà, si temono fallimenti. In Francia scoppia il caso Societé Generale, dove si accusa un trader di aver giocato coi derivati3 , perdendo 5 miliardi di euro: vero o no, sintetizza una situazione di difficoltà più generale. Anche qui si rende necessario un aumento di capitale per ricostituire il patrimonio. I mercati sembrano rimbalzare per qualche settimana, poi a metà marzo si inabissano di nuovo per il caso Bear Stearns. La più piccola delle “big five”, le cinque case d’investimento più grandi d’America (e del mondo) rischia di fallire nel week-end (un classico) e viene “regalata” a JP Morgan, ad un prezzo simbolico, con un prestito di 30 miliardi di dollari garantito dalla Fed.La mina dei mutui sub-prime continua a girare, impestando la finanza mondiale. Nessuno sa più dire dovesiano finiti i prodotti tossici, nessuno osa più comprare niente dalle banche né prestare loro denaro. Il sistemainterbancario fatica a girare come un motore grippato, mentre la bolla azionaria si sgonfia velocemente,trasferendosi su altri terreni (l’oro e soprattutto le materie prime). Il rialzo delle materie prime e in particolare l’impennata del petrolio alimentano il rialzo dei prezzi e la ripresa dell’inflazione, paralizzando l’azione delle banche centrali, in bilico tra restrizione monetaria e espansione del credito. All’inizio di luglio 2008 la BCE commette uno dei tanti errori tattici nella gestione della crisi, alzando i tassi d’interesse dal 4 al 4,25%. I tassi interbancari decollano ulteriormente, arrivando in pochi mesi a sfiorare, sul mercato dell’euro, il 5,50%. Ma anche a questi prezzi le banche dotate di liquidità si rifiutano di prestare soldi a quelle “sospette”. Alla metà di luglio comincia a profilarsi un impegno concreto del Tesoro americano per salvare dal disastro le due agenzie governative dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, che dal 1968, con profitti privati e garanzie pubbliche, coprono la grande maggioranza dei mutui americani (6 trilioni di dollari, quasi la metà del Pil americano). Il salvataggio si concretizza all’inizio di settembre, ma ormai la situazione va precipitando. Il blocco del credito strozza le banche d’investimento, quelle che sono sopravvissute a Bear Stearns: nel week-end di metà settembre fallisce Lehman Brothers, la terza banca d’affari mondiale, lasciando uno sbilancio di 150 miliardi di dollari tra attivo e passivo (una Parmalat moltiplicata per 10). Le implicazioni per la finanza mondiale sono disastrose, vengono bloccati centinaia di miliardi di dollari in business che avevano Lehman come controparte, si aprono falle enormi nei bilanci di banche, fondi, istituzioni statali, investitori privati: solo in Italia sono 4,2 miliardi di euro (1,2 lo stato, 1,2 banche e assicurazioni, 1,8 i privati detentori di bond e polizze). E’ accaduto un evento senza precedenti: è fallita una grande banca Usa dalle dimensioni mondiali, ma come se non bastasse è dovuto intervenire il Tesoro per salvare A.I.G. e Bank of America per comprare Merrill Lynch, due istituzioni destinate a sicuro crack. Si teme per Morgan e Goldman, che vengono trasformate da banche d’affari a banche commerciali. La settimana dopo va in fallimento Washington Mutual (assorbita da Bofa) e poi Wachovia Bank (comprata da Citibank e poi da Wells Fargo). Il mercato finanziario americano viene ridisegnato dall’alto in base al principio che il soggetto più fragile va in mano a chi è in grado di soccorrerlo, anche se tutte le istituzioni finanziarie si dimostrano alquanto malandate: Citibank, Bofa, Jp Morgan riemergono più grosse di prima, ma la loro solidità è tutta da dimostrare. Ormai è il sistema a dimostrarsi vulnerabile, fragile, corroso nelle fondamenta. Per tentare di salvare la situazione, la Fed ed il Tesoro elaborano e propongono il Piano Paulson: un piano gigantesco, da 700 miliardi di dollari, che inizialmente si propone di ricomprare dalle banche le attività tossiche e illiquide, per salvarle dal fallimento, bloccare gli sfratti esecutivi, ridare ossigeno al credito. Dopo convulse manovre e polemiche e dopo due diverse rielaborazioni, il piano viene approvato dal Congresso per 850 miliardi, con importanti modifiche, che portano ad una strisciante nazionalizzazione del sistema bancario americano. Il vituperato intervento pubblico nell’economia torna ad essere l’unico modo per salvare da se stesso il capitalismo deregolato degli ultimi 20/30 anni. La crisi della finanza non è solo americana. Dopo il fallimento Lehman le cose precipitano anche in Europa, minando alle fondamenta le banche più fragili dal punto di vista patrimoniale. La prima a saltare è Fortis, che assomma a investimenti sbagliati la scalata ad ABN-AMRO Bank, comprata alla metà del 2007 per 24 miliardi di euro (insieme a Santander e Rbs) e rivenduta dopo un anno a meno della metà: le attività olandesi vengono acquistate dallo stato, mentre quelle belghe e lussemburghesi finiranno, dopo qualche giorno, alla BNP Paribas. Anche Dexia va in crisi e viene salvata con due iniezioni di liquidità da parte degli stati (Francia e Belgio), per quanto ancora ora non sia in completa sicurezza. Per il Belgio però non è ancora finita, perché anche Kbc richiede un intervento straordinario, così come in Olanda la Ing, dove lo Stato deve immettere 10 miliardi di euro per salvarla. La Germania non è affatto esente dalla crisi, pur non avendo avuto un mercato immobiliare “drogato”. Già nel 2007 Ikb e Kfw avevano passato seri guai, ora Hypo Real Estate ha dovuto essere salvata da massicci interventi statali, come del resto Commerzbank, che a sua volta aveva appena comprato Dresdner Bank. La mina sub-prime ha colpito a vario titolo e in varia misura tutte le Landesbanken, le banche regionali che avevano vincoli agli investimenti ed hanno trovato interessanti quei bond certificatitripla A che venivano dall’America e rendevano così bene. Ma un pezzo di Germania c’è anche in Unicredit, che nel 2005 si era comprato la bavarese Hvb, e tramite essa Bank Austria, Bank Pekao in Polonia, importanti partecipazioni in almeno una decina di paesi dell’est Europa. Il ciclone investe Unicredit che arriva a perdere in borsa oltre l’80% dai massimi, costringendola ad un aumento di capitale negato fino all’ultimo minuto e infine annunciato a fine settembre, insieme al taglio del dividendo (da contanti ad azioni). Dopo un po’ arrivano anche i libici a prendersi una fetta, mentre le fondazioni commissariano Profumo, costretto persino a chiedere aiuto alla Mediobanca di Geronzi, combattuto per tutta l’estate sulla governance di piazzetta Cuccia. Una totale debacle. Come peraltro per tutte le banche italiane quotate, si aprono voragini nelle quotazioni, attacchi speculativi, dubbi sulla solidità e necessità di interventi governativi di sostegno e/o salvataggio. Una rete di protezione che si sperava di non dover usare, ma ormai resa necessaria, dopo il massiccio intervento pubblico che ha ricapitalizzato tutte le banche del Nord Europa. In questo contesto da tregenda, arriviamo al drammatico G7 del 11/12 ottobre, con vertice europeo al seguito, dove sono state decisi interventi faraonici per salvare le banche, sul modello inglese di Gordon Brown, con impegni pubblici imponenti in tutta Europa, buttando alle ortiche tutta la spazzatura, sentita per decenni, sulla proibizione agli aiuti di stato e sull’ingerenza del pubblico nell’economia privata: la resa più totale all’evidenza che il privato, lasciato alla sua dinamica senza regole, va dritto verso il suicidio. Si calcola che gli interventi pubblici per salvare le banche finiranno per costare in totale 1.900 miliardi di euro, su scala mondiale.I piani pubblici per ricapitalizzare le banche hanno alla fine fermato il panico incombente che stava portandoall’assalto agli sportelli per ritirare il denaro, cosa che avrebbe potuto determinare nell’arco di pochi giorni, ilcrollo totale del sistema. Tuttavia la situazione è ben lontana dall’essere risolta. L’elezione di Obama negliUsa ha rasserenato il clima per poche ore, per poi fare tornare gli incubi più inquietanti. Il G20 di metànovembre è stato importante per aver sancito l’importanza del coordinamento internazionale delle politiche,ma ha prodotto per ora solo grandi pensate e pochi interventi concreti immediati. Paulson ha rivisto ancora ilsuo piano, ammettendo l’inutilità di comprare i titoli tossici delle banche, e spostando invece l’asse dell’intervento sull’entrata diretta dello stato nel capitale delle banche. Dopo pochi giorni tutto ciò si è tradotto nel salvataggio pubblico di Citibank, che nell’arco di un anno ha perso il 90% del proprio valore di borsa, si è ridotta da prima banca del mondo a quinta banca Usa, e ha deciso di sopravvivere licenziando 52.000 persone e vendendo le sue attività migliori. Intanto la crisi sta passando dal settore finanziario all’economia reale e si vaglia l’intervento dello stato nel settore automobilistico per tenere a galla, negli Usa, le tre di Detroit, in Europa per dare sostegno a tutti i produttori in crisi. Il mercato dell’auto è crollato, negli ultimi mesi, del 30%. Gli altri settori non sono da meno e tutto sembra voler dire che il ballo è appena cominciato. In tutto il mondo, centinaia di migliaia di aziende chiudono i battenti a ritmi impressionanti, lasciando sul lastrico lavoratori diretti, indotto e fornitori. L’avvitamento dell’economia e l’effetto domino stanno realizzando la prima vera, grande, dura recessione globale dal 1929. E’ un fenomeno nuovo per le nostre generazioni ed in effetti il movimento della scuola ha capito, più o meno confusamente, che ci stanno “rubando il futuro”. Un futuro che sarà, facilmente, molto diverso dal passato.

 

Le origini

 

I problemi scoppiati così seriamente nell’ultimo anno e arrivati sull’orlo della “crisi sistemica” come è statadefinita dal FMI sono sorti in un lungo arco di tempo, che possiamo periodizzare in almeno 40 anni, anche senegli ultimi 15 abbiamo assistito ad una violenta accelerazione. Il problema è essenzialmente quello di un progressivo indebitamento della struttura finanziaria americana, a sua volta capace di portarsi dietro, con fasi alterne, (quasi) tutto il resto del mondo. Il credito totale interno degli Usa è passato dal 150% del Pil nel 1969, al 240% del Pil nel 1990, al 340% del Pil nel 2007. La crescita costante del debito aggregato americano è stata realizzata attraendo capitali dal resto del mondo, con una politica di alti tassi d’interesse (anni ’80), con una politica di dollaro forte (primi anni ’80, fine anni ’90), con politiche di deficit spending basate sulla spesa militare (Reagan), con politiche di forte innovazione tecnologica e supremazia militare, con una forte flessibilità del mercato del lavoro per accrescere produttività e redditività dei capitali investiti in Usa, con una sistematica falsificazione dei dati relativi ad occupazione e produttività. Tutto questo ha sostenuto il dollaro, pur a fasi alterne, difendendone sempre il ruolo di divisa rifugio nei momenti di crisi. Ma il debito globale è sempre salito. E’ salito anche nelle fasi in cui le cose sembravano andare bene, anzi benissimo. Negli anni clintoniani, in particolare dopo il 1995, la borsa ha cominciato a salire a ritmi vertiginosi (fino al 2000) e il bilancio dello stato ha raggiunto il pareggio e addirittura l’avanzo primario, ma la struttura privata dell’economia ha conosciuto crescenti livelli di debito. In Borsa è l’epoca delle M&A, degli LBO, delle fusioni tra corporation quotate, realizzate a debito, o carta contro carta. Nel settore privato è l’epoca delle carte di credito revolving4 e degli investimenti azionari da “esuberanza irrazionale”, quando le dot.com5 quotate in borsa possono in una notte fare diventare ricchi per la vita. L’ubriacatura finisce nel marzo del 2000 ed il lungo risveglio impiega fino a settembre 2001 per costringere tutti a toccare di nuovo con i piedi per terra. La recessione che segue alle Torri Gemelle è abbastanza rapida e non molto profonda, al malato viene applicata una terapia d’urto, che consiste in taglio delle tasse e abbassamento dei tassi. I tassi vengono portati dal 6,25% del marzo 2000 all’1% del 2004. Rifinanziarsi a questi tassi diventa una tentazione cui è impossibile resistere.Le case diventano il bancomat da cui prelevare fondi per finanziare la domanda, ogni genere di consumo,bene durevole, necessità. I mutui vengono rifinanziati continuamente, con criteri sempre meno prudenziali. Ilpresupposto è che il valore degli immobili continuerà a salire sempre allo stesso ritmo, quindi il debito da mutui ne segue il corso. Il valore degli immobili raddoppia tra 2000 e 2006, pur con differenze significative tra zona e zona, e così avviene anche per l’ammontare dei mutui. Il debito costituito da mutui immobiliari sale, dal 2000 al 2006, da 4,8 a 9,5 trilioni di dollari. Si tratta di un incremento di circa il 100%. Nello stesso periodo i redditi nominali salgono solo del 34,7%: quindi non c’è rapporto tra crescita dell’economia reale, in grado di finanziare la restituzione delle rate (il servizio del debito), e crescita dell’indebitamento globale. Nel periodo successivo al 2005 la capacità di risparmio dell’economia Usa, da sempre vicina allo zero, passa in negativo. Il corollario che implica la crescita costante dei prezzi degli immobili si rivela però tragicamente sbagliato.Quando i tassi ricominciano a salire (dall’1% del 2004 al 4,5% del 2006) i nuovi mutui si fermano, i prezzianche, le rate dei mutui vecchi invece no, continuano la corsa e fanno emergere le prime serie difficoltà.Comincia ad esserci dell’invenduto sul mercato immobiliare. Cominciano a saltare i debitori più deboli. Cominciano a scaricarsi sul mercato case invendute e case pignorate. I prezzi cominciano a precipitare, i mutui insolventi cominciano a crescere. Nell’ultimo anno (2008 su 2007) i prezzi delle case sono scesi mediamente del 18%, con punte di oltre il 25% in otto delle principali 20 aree urbane degli Usa.Il crollo dei prezzi delle case porta all’esplosione di una catena di bolle ad essa collegata: bolla edilizia, bolladei mutui, bolla del credito, bolla dell’azionario, bolla delle materie prime, bolla degli hedge fund, bolla delleobbligazioni. Tutta l’impalcatura del sistema rischia di crollare, perché è crollato il pilastro che reggeva siadomanda di consumo che domanda per investimento: la capacità di indebitarsi.E’ in atto un gigantesco “deleverage” [tecnicamente: operazione che si realizza rimborsando il debito pregresso con la liquidità disponibile ndr] della società americana, che si trascina dietro tutti quei pezzi dell’economia mondiale che più strettamente l’hanno seguita in questa folle corsa verso il baratro. Non a caso restano relativamente protetti quei paesi che hanno strutture finanziarie più arretrate, cioè una società più protesa al risparmio e meno esposta sul credito al consumo (es. Italia), mentre soffrono maggiormente le economie più legate a boom immobiliari consistenti (Spagna, Regno Unito, Irlanda). Soffrono di più i sistemi bancari fortemente integrati nella finanza anglosassone (Regno Unito, ancora, ma anche Benelux, ecc.). Per i paesi emergenti il discorso è diverso: quelli dotati di materie prime (Russia, Brasile, Sud Africa) vedono assottigliarsi le possibilità di farsele pagare bene, mentre non hanno ancora fatto decollare una domanda interna autonoma; in questi anni hanno ridotto il debito estero, spesso anzi sono dotati di notevoli risorse finanziarie che possono rappresentare un lasciapassare per la “stanza dei bottoni” dell’economia mondiale. Per i consumatori netti di materie prime (Cina, India, Tigri asiatiche) il problema principale è trovare sbocchi alternativi ad una domanda americana di beni che dovrà per forza calare e nello stesso tempo (soprattutto per la Cina ed il Sud Corea, come del resto anche per il Giappone) garantirsi la solvibilità degli Usa rispetto all’ingente debito americano detenuto come riserva valutaria nei propri forzieri.Lo shock finanziario si aggiunge ed aggrava problemi preesistenti di squilibrio nella struttura del commerciomondiale, con forti eccedenze asiatiche, compensate dal sistematico deficit Usa. La compensazione erarappresentata dalla sottoscrizione dei bond Usa: ma chi è in grado di garantirne la solvibilità, in un contesto in cui il salvataggio del sistema implica un fortissimo sforzo pubblico per tenere a galla le principali banche, le istituzioni locali, gran parte del sistema industriale, i consumi delle famiglie? Il debito pubblico Usa ha la tripla A dal 1917: ma quanto vale ora veramente?Il caso dei mutui sub-prime è solo una piccola parte del problema derivati: 600 trilioni di dollari di valore“nozionale” che secondo la BRI incombevano al 31/12/2007 sul sistema finanziario globale, un valore pari a11 volte il Pil mondiale. Ad oggi sembra che circa 2/5 di questa massa siano stati “smaltiti” sul mercato e siviene a sapere che solo nel mese di settembre gli hedge funds hanno buttato sul mercato circa 43 miliardi didollari di roba in qualche modo “tossica” facendo crollare le quotazioni azionarie in misura inusitata e senzaprecedenti. Il mese di ottobre 2008 è stato il peggior mese borsistico dal 1938 e le quotazioni della GeneralMotors sono tornate al livello del 1943. I mercati azionari sono caduti di circa il 50% rispetto ai massimi dicirca un anno fa, ma nessuno è oggi in grado di valutare se il bagno sia finito.

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LA CRISI FINANZIARIA MONDIALE (2)

Le ipotesi e i possibili esiti

Siamo in una situazione paragonabile al 1929? Potremmo trovarci davanti ad uno scenario così disastroso?Potrebbe ripetersi un momento Minsky6 ?Non credo che sia facile tracciare un parallelo, se non in alcuni caratteri di similitudine che si ripetono adistanza di quasi un secolo. Allora la speculazione di borsa si basava sui “margin”7 . Adesso la speculazione si nutre di derivati. Allora il mercato crollò in maniera rovinosa per un lungo periodo di tempo, dopo alcune avvisaglie nel 1924 e nel 1927. Nel periodo tra il 21/10/1929 ed il 29/10/1929 il Dow Jones scese di oltre il 50%, ma andò a fermarsi a -88,20% l’8/7/1932: prima di tornare ai valori precedenti la grande crisi ci sarebbero voluti 24 anni ed una guerra mondiale costata 50 milioni di morti.Adesso il mercato è calato di circa il 50% sull’arco di un anno, ma nessuno è in grado di dire dove si fermerà(alcuni parlano di occasione storica per rientrare a comprare, i più predicano prudenza e prevedono altritracolli). Allora le autorità monetarie e istituzionali commisero una lunga serie di errori che finirono per6 aggravare gli effetti della crisi (restrizione monetaria, protezionismo, pareggio di bilancio), mentre ora sieccede in liquidità, senza peraltro convincere i mercati dell’efficacia delle politiche pubbliche. Scontri edeficit di coordinamento non sono mancati, tra i vertici mondiali, anche in questa occasione. La differenza più marcata consiste nella batteria di strumenti e nell’arsenale teorico che gli economisti e gli stati hanno a disposizione per fronteggiare la crisi. Gli strumenti pubblici sono oggi invocati da tutti, come unico possibile rimedio ad una situazione percepita come catastrofica. Si tratta di vedere se saranno in grado di funzionare, o se siamo effettivamente in una crisi priva di precedenti e quindi di strumenti adeguati alla sua gestione.Molti compagni cantano vittoria per la crisi ormai evidente del capitalismo, nella sua versione moderna e nelsuo carattere di economia privata fortemente sovvenzionata dallo stato. La crisi dell’economia mista sarebbegiunta al suo punto di non ritorno. In coerenza con questa impostazione, si tratterebbe di ragionare sul futuroe sulla nostra capacità di proporre e guidare un passaggio rivoluzionario verso una dimensione politica, sociale, economica, di tipo superiore, capace di superare le contraddizioni insanabili di un modello storicamente dato, che ha fallito.I riformisti di varia natura sostengono invece che a fallire è stata una forma di mercato senza regole, quindioccorrerebbe intervenire in forma dirigistica, ribadendo la validità del modo di produzione capitalistico, delmodello del capitalismo sociale di mercato, con una temporanea espansione del settore pubblico per salvareil sistema e poi regolamentarlo meglio (in particolare il settore finanziario) perché tutto questo non possaripetersi.I liberisti preferiscono evitare il discorso su colpe e responsabilità, non osano toccare il tema del carattere storicamente dato del capitalismo, chiedono un aiuto pubblico al sistema privato, di tipo incondizionato, temporaneo e poco invasivo, in modo da tornare presto a massimizzare i loro profitti, non appena i soldi dei contribuenti avranno provveduto a salvare le loro aziende, le loro banche, i loro investimenti sbagliati.In realtà dobbiamo ancora capire se gli interventi pubblici funzioneranno, o meglio se saranno sufficienti asalvare il capitalismo così come lo conosciamo, dopo qualche inevitabile correttivo ai delicati meccanismidella finanza. Nouriel Rubini è l’economista che in tempi non sospetti (settembre 2006) e con grande dovizia di particolari, aveva previsto l’esatto svolgersi degli avvenimenti che avrebbero preceduto e seguito lo scoppio della bolla. Secondo lui è ormai svanita l’illusione di trovarsi davanti ad una veloce recessione di 6 mesi a forma di V. Più probabilmente avremo una lunga recessione a forma di U, che durerà almeno due anni negli USA ed un periodo analogo nel resto del mondo. La profondità dei guasti nel sistema finanziario non esclude però uno scenario molto più pesante, con una recessione decennale a forma di L, come quella che ha conosciuto il Giappone dopo il 1990, allo sgonfiarsi delle bolle immobiliare e azionaria.Roubini propone un programma di otto punti, che presumibilmente rappresenta il massimo che il sistemainternazionale può oggi concedere, senza cambiare natura, sotto il peso della catastrofe incombente, nelquadro di interventi compatibili con le politiche pubbliche economicamente e politicamente accettabili:1) taglio dei tassi di 150 punti base;2) garanzia temporanea completa di tutti i depositi, smistamento delle partite finanziarie da istituti decottiad altri più solidi, sostenuti da interventi pubblici;3) rapida rinegoziazione dei mutui preceduta dalla sospensione delle esecuzioni immobiliari;4) massiccia iniezione di liquidità a tutte le istituzioni finanziarie solvibili;5) provvista di credito alle aziende private solvibili e alle PMI per evitare crisi di liquidità;6) massiccio piano di stimoli fiscali, lavori pubblici, reti di sostegno ai disoccupati, sgravi per le famiglie,aiuti agli enti locali;7) rapida ristrutturazione del sistema bancario, tramite ricapitalizzazioni, interventi pubblici e moratoriasulle insolvenze dei piccoli debitori;8) accordo tra paesi creditori e paesi debitori per consentire a questi ultimi di mettere ordine al propriointerno grazie all’utilizzo, remunerato, delle risorse dei paesi in surplus.SECONDO ROUBINI, L’ASSENZA ANCHE DI UNA SOLA DI QUESTE TERAPIE POTRA’ PROVOCAREIL CRASH DEL MERCATO, IL COLLASSO SISTEMICO DELLA FINANZA E UNA DEPRESSIONEGLOBALE.Se Roubini ha colto esattamente la dimensione dei problemi sul piano contingente, decisamente più ampia eprofonda è la lettura interpretativa che fornisce Immanuel Wallerstein. Il seguace di Braudel tenta di inserirei movimenti convulsi della finanza in una dimensione storica di lungo periodo. Secondo W. siamo con tuttaevidenza dentro un momento terminale di una fase B di un ciclo di Kondratieff8 , fase seguita ad una fase A(1945-1975) dove il capitalismo ha ricavato profitto dalla produzione materiale, mentre da oltre 30 anni haspostato il suo baricentro sulla finanza e la speculazione. Siamo in una fase di passaggio in cui il capitalismonon riesce più a “farsi sistema” nel senso di Ilya Prigogine9 , cioè tende a deviare in modo troppo frequentedal suo equilibrio (chimico, biologico, sociale). E’ il caos, la lotta non è più tra sostenitori e avversari delsistema, ma tra gli attori stessi, che lottano tra loro per determinare un certo esito alla transizione in corso.Questa situazione di caos sistemico può durare da 2 a 5 anni, prima che prevalga un qualche esito intelleggibile.Quindi tra 10 anni, forse, ne sapremo di più, mentre solo tra 30/40 anni potremo capire chi ha vinto e che tipo di sistema avrà prevalso: potrebbe prevalere un modello di sfruttamento più violento dell’attuale, oppure un sistema più redistributivo e più compatibile con le necessità umane e l’ambiente in cui viviamo. Certamente è una fase lunga, in cui il vecchio sistema, entrato in fase terminale, collassa definitivamente e lascia spazio all’agire sociale e politico, in cui possiamo provare a imprimere una direzione di sviluppo della crisi verso gli obiettivi che consideriamo primari. Siamo in una fase simile a quella del passaggio dal feudalesimo al capitalismo, durato dal 1450 al 1550, in cui le vecchie monarchie e gerarchie religiose furono costrette a veder emergere città, comuni, strati sociali che sarebbero poi diventati il perno della rivoluzione borghese. Il capitalismo sta cercando un suo nuovo centro, in grado di sostituire il modello egemonico americano, ma ad oggi è impossibile individuare chi vincerà, tra Europa, Cina, India, Russia, e così via. Nella fase intermedia una pluralità di centri si candiderà alla guida del mondo, dietro la cortina fumogena di una dispiegata cooperazione internazionale. Alla fine però la dinamica centro-periferia finirà per imporsi nuovamente, non senza scontri violenti e/o sotterranei per fornire una nuova soluzione “di sistema” alla crisi del sistema. In questa fase di transizione, densa di incognita ma anche di possibilità, ci troveremo ad agire nei prossimi anni. NOTE: 1 I subprime, o “B-Paper”, “near-prime” o “second chance” sono quei prestiti che vengono concessi ad un soggetto chenon può accedere ai tassi di interesse di mercato, in quanto ha avuto problemi pregressi nella sua storia di debitore. Iprestiti subprime sono rischiosi sia per i creditori sia per i debitori, vista la pericolosa combinazione di alti tassi diinteresse, cattiva storia creditizia e situazioni finanziarie poco chiare, associate a coloro che hanno accesso a questo tipodi credito [ndr]. 2 I fondi hedge (in inglese hedge funds) sono fondi speculativi e nascono negli Stati Uniti negli anni ’50. La leggestatunitense prescrive che gli investitori abbiano un patrimonio di almeno un milione di dollari o entrate nette per oltre200.000 dollari. Il numero dei soci non può essere superiore a 99.Si caratterizzano per:– l’utilizzo di tecniche e strumenti di gestione avanzati, spesso non adottabili dai fondi comuni (o direzionali) per motiviregolamentari;– la struttura commissionale, basata su una commissione di gestione annua ed una commissione di performance (tipicamenterispettivamente pari a 2% e 20%);– l’investimento nel fondo speculativi di una quota rilevante di capitale da parte dei gestoriI fondi speculativi hanno l’obiettivo di produrre rendimenti costanti nel tempo, con una bassa correlazione rispetto aimercati di riferimento, attraverso però investimenti singolarmente ad alto rischio, ma con possibilità di ritorni moltofruttuosi. Sono contraddistinti dal numero ristretto di soci partecipanti e dall’elevato investimento minimo richiesto. Sono soggetti ad una normativa che per quanto riguarda la prudenza, è più limitata rispetto a quella che vincola gli altri operatori finanziari. Una tipica operazione effettuata dagli hedge funds è la vendita allo scoperto, a scopo ribassista; tale operazione infattinon è permessa, di norma, ai fondi comuni canonici di diritto italiano (costituiscono eccezione i fondi che hanno recepito le nuove normative Ucits III). Sono fondi ad alto rischio per l’investitore. In Italia sono rappresentati da fondi comuni di investimento speculativi (decr. Min. Tesoro 228/1999) recante norme per la determinazione dei criteri uniformi per i fondi comuni di investimento. Quest’ultimo costituisce uno schema strutturale atipico disciplinato attraverso negozi privatistici, disancorato dalle modalità di partecipazione e dall’oggetto tipico dell’investimento rispetto ai fondi comuni classici. Le Società di gestione del risparmio (SGR) possono istituire fondi speculativi il cui patrimonio è diverso da quello previsto in via prudenziale dalla Banca d’Italia con reg. 20/09/1999 [ndr]. 3 I prodotti derivati sono degli strumenti finanziari che “derivano” le loro caratteristiche e il loro valore da altri prodottisottostanti (underlying). Tali prodotti possono avere natura reale (si tratta di beni fisici come oro, petrolio, soia etc.) ofinanziaria, in questo caso si fa riferimento ad un Indice di Borsa, ad una valuta, ad un tasso di interesse o ad una singola azione. Si suddividono in due categorie: i “futures” e le “opzioni”.Un contratto futures può essere definito come “un acquisto o una vendita a termine di un determinato prodotto(finanziario o reale) sottostante”. Attraverso un contratto future un investitore “scommette” su un certo andamento deiprezzi del sottostante. Anche le “opzionisono dei contratti a termine dove, a differenza dei futures, l’oggetto del contratto è un diritto. Attraverso un contratto di opzione viene scambiato il diritto di “acquistare” o “vendere” una determinata quantità di un prodotto sottostante ad un certo prezzo e ad una certa scadenza (o entro una certa scadenza [ndr].

 

4 Le carte revolving sono una forma di prestito mascherato. Non richiedono un deposito bancario a garanzia e permettono di prelevare contante da Bancomat che poi viene restituito ratealmente [ndr].

 

5 Una Dot-com è un’azienda di servizi che fa la maggior parte del suo business tramite un sito internet. Il nome deriva dal comune utilizzo da parte dei siti del dominio di primo livello .com. Le Dot-com furono le protagoniste, in negativo, della bolla speculativa della new-economy all’inizio degli anni ’90, quando numerose di esse fallirono generando una recessione della New Economy.Dot-com può riferirsi sia alle compagnie che oggi fanno business su internet, ma può essere usato più specificatamenteper riferirsi alle aziende con questo modello di business che lo fecero durante la fine degli anni 90. Molte di queste startup naquero grazie al grande surplus di fondi di venture capital ed al grande ottimismo del mercato azionario durante la fine del ventesimo secolo. Per questo motivo, il termine Dot-com può avere una valenza negativa rappresentando molte delle aziende che fallirono, illuse di poter costruire facilmente delle fortune senza grosse capacità né idee [ndr]. 6 Hyman Philip Minsky è stato un economista statunitense, collocabile vicino al filone dei post-keynesiani, noto per lasua teoria dell’instabilità finanziaria e sulle cause delle crisi dei mercati.Minsky ha proposto alcune teorie che mettono in relazione la fragilità dei mercati finanziari e le bolle speculativeendogene ai mercati. Fondamentalmente, Minsky sostiene che in periodi di espansione, quando il flusso di cassa delle imprese supera laquota necessaria per pagare i debiti, si sviluppa un’euforia speculativa. All’origine delle crisi vi è un displacement, cioèuno “spostamento”, che altro non sarebbe che un evento esterno rispetto al sistema macroeconomico, che spinge i soggetti a credere che vi saranno forti rialzi nel valore delle attività (siano queste reali o finanziarie). Ne consegueun’espansione creditizia, che alimenta ulteriormente l’euforia. Nel momento in cui ci si rende conto che l’espansione dei prezzi è terminata, inizia la corsa alla vendita, che può portare al panico sui mercati, e ad effetti negativi anche sull’economia reale [ndr]. 7 Il margin è stata una pratica diffusa nelle borse degli anni trenta ed è stata una delle cause del crollo del 1929 a NewYork. Le azioni erano acquistabili dietro anticipo del 10% del loro valore al broker. Molti speculatori prendevano aprestito denaro dalle banche (a elevati interessi) per acquistare azioni in grande quantità e crearne un rialzo artificioso esubito rivenderle con plusvalenza (e in grado ripagare il 90% di quota restante sulle azioni acquistata). Non si tratta di una semplice scommessa al rialzo. L’anticipo del 10% consente un effetto leva. Dato un titolo il cui valore unitario si misura in 100 (in centesimi).Il prestito di 100 può essere utilizzato per comprare un’azione del titolo (pagando subito il suo valore) oppure 10 azioni(del valore di 100) anticipando solo il 10% della somma.La quantità di azioni di cui si dispone è molto maggiore (maggiore di 10 volte di quella acquistabile pagando subito ilcontrovalore) e quindi sufficiente a stimolare trend rialzisti. Il guadagno che si ha vendendo non appena si rialza il prezzo, non è realizzato su una sola azione ma su uno stock consistente (impiegando lo stesso prestito): se i guadagni vengono reinvestiti per ripetere il procedimento si creano trend rialzisti che possono durare nel lungo periodo, allontanare il valore di borsa dal valore reale dei corsi azionari e creare delle bolle speculative esplosive [ndr].Un paradosso tipico è quello di società a grande capitalizzazione il cui 80% è investito nel 20% di una controllata di valore borsistico molto inferiore: normalmente il differenziale è debole nelle società operative (alla base dei gruppi finanziari) e maggiore nelle società capogruppo-cassaforte. 8 La formalizzazione del ciclo dell’economia capitalista, della durata di 50-60 anni e riguardante i prezzi, i tassi d’interesse ed altre variabili, è dovuta a Nikolai Dmyitriyevich Kondratyev, un economista russo, il quale riteneva che l’iterazione tra fenomeni correnti generasse un pattern ripetitivo su un periodo di tempo lungo. Per aver contraddetto le tesi marxiste riguardo all’ estinzione dei sistemi capitalisti, il governo sovietico lo spedì in Siberia, dove morì ad un’età di 46 anni.K. integrava un’analisi economica e politica all’interno di un contesto storico fatto di guerre, scoperte importanti ecambiamenti nell’opinione pubblica, giungendo al risultato che in un’economia capitalistica si sarebbero susseguiti deitrend, ognuno della durata approssimativa di 54 anni. I suoi studi furono tradotti all’inizio degli anni ’30, e si scoprì cheKondratieff aveva previsto non solo la depressione di quegli anni, ma anche la bolla speculativa che la aveva preceduta. Un ciclo di Kondratieff è scomponibile in 4 fasi, cui corrispondono diversi “umori psicologici” e quindi comportamentidiversi da parte degli individui: tali fasi sono la crescita, la recessione primaria, il periodo di stabilità e la depressionesecondaria. Nella prima fase, che richiede in genere circa 25 anni per completarsi l’inflazione gioca un ruolo importante, ed accompagna la crescita. Questo è un periodo in cui il benessere si diffonde, sottoforma ad esempio di risparmio ed accumulo di ricchezza. Aumenta l’occupazione ed i salari, nuovi prodotti e bisogni vengono diffusi, e la tecnologia viene migliorata. L’aumento della produzione e del volume dei beni richiede una maggiore velocità della moneta, contribuendo a spostare i prezzi su un livello più alto. Quando il limite di questo trend sopraggiunge comincia la prima fase di inversione, in cui la parte di capitale che prima veniva destinata all’investimento e al risparmio, in questa fase viene impiegata tutta in consumi, creando una distribuzione dei beni prodotti che a sua volta tende a saturare il mercato.Contestualmente l’inflazione comincia a mangiare parte dei profitti e si instaura una fase di recessione inflazionaria chepuò essere accompagnata da quella che si chiama “peak war”, come nel caso della prima guerra mondiale, o del Vietnam. Questa fase, sebbene duri in media 4-5 anni, è in grado di orientare l’umore di una popolazione per diversi anni successivi. Si comincia a cercare la stabilità, e l’isolamento, ed incomincia a un Plateau di altri 7-10 anni.Da qui lentamente e selettivamente si fanno strada determinati settori ed idee innovative che successivamente sitramutano in euforia, torna il desiderio di consumo ed aumenta l’indebitamento: questa è la fase più feconda all’insorgere di bolle speculative, le quali danno il colpo finale ad un’economia già di per sé “drogata”. A questo punto la fase che segue ha tutte le premesse per essere negativa.L’accumulo esasperato di benessere costringe l’economia ad una fase di austero ritracciamento, in genere costituita datre anni di collasso, seguiti da una quindicina di anni di contrazione economica. Questo secondo Kondratieff è l’unicomodo che l’economia ha di depurarsi dagli eccessi precedenti [ndr]. 9 Ilya Prigogine, chimico belga di origine russa, premio Nobel, si dedicò agli studi dei sistemi chimici in grado di“autorganizzarsi” e sviluppò la teoria della “struttura dissipativi”, sistema aperto che si mantiene in uno stato di stabilità, anche se lontano dal punto di equilibrio: la struttura rimane la stessa nonostante un costante flusso di materia e un continuo cambiamento dei propri componenti, è definita “struttura dissipativi” proprio per enfatizzare lo stretto rapporto ntra la struttura stessa e il cambiamento (“dissipazione”) [ndr].

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LA CRISI IN ITALIA

Il quadro generale

Negli Usa la disoccupazione è salita in ottobre al 6,5%. Negli ultimi 12 mesi hanno perso il lavoro quasi 3 milioni di persone. I prezzi delle case sono scesi mediamente del 18%. Le borse hanno perso quasi il 50%. I risparmi delle famiglie, previdenza inclusa, sono stati falcidiati dalla crisi finanziaria e dall’impennata delle rate di mutuo. Un modello di sviluppo basato sul costante incremento del debito ha toccato i suoi limiti e si è spezzato. La locomotiva Usa, che ha trainato per anni l’economia mondiale, approfittando della propria egemonia militare, tecnologica e scientifica, oltre che del ruolo privilegiato del dollaro, questa volta si è davvero fermata. L’economia mondiale è a una svolta: la sopravvivenza sarà garantita soltanto dalla capacità di raggiungere equilibri di tipo nuovo. La deriva dei mutui subprime e dei titoli tossici, il fallimento di Lehman e la serie di salvataggi bancari che l’hanno preceduto e seguito, la crisi trasversale dovuta all’eccesso di leva finanziaria, al proliferare dei derivati, alla crescita esponenziale di strumenti fuori controllo, hanno scatenato una crisi sistemica che ha portato in tempi rapidissimi ad una situazione pericolosissima, ad un passo dal collasso e dalla catastrofe. Il piano Paulson ed il ciclopico sforzo di intervento pubblico nel salvataggio delle banche, delle istituzioni finanziarie fallite e dei paesi sovrani sull’orlo del default hanno spazzato via un sistema di pensiero che aveva dominato la retorica pubblica, l’ortodossia economica e l’ideologia politica negli ultimi 30 anni. La capacità del mercato di autoregolarsi si è dimostrata una patetica frottola, quando nell’arco di poche settimane tutti i principali stati hanno dovuto stanziare la stratosferica cifra di 1.900 miliardi di dollari per tenere a galla il sistema finanziario mondiale, salvare banche e banchieri, risparmi e stabilità sociale: neanche un centesimo, invece, per miliardi di denutriti che continuano a morire di fame nella più totale indifferenza, come ha ricordato uno che di miliardi se ne intende (George Soros).Adesso sono tutti keynesiani, invocano interventi pubblici per sostenere la domanda aggregata, acclamano l’intervento dello Stato nell’economia come male minore di fronte allo spettro della catastrofe. Si incentrano le critiche sulla deregolamentazione, responsabile principale dell’irresponsabilità finanziaria e delle sue conseguenze, come la ricerca spasmodica del profitto di breve termine, il ruolo predatorio dei manager, l’immoralità delle stock option e dei meccanismi che generano, la perdita di senso “strategico” della missione aziendale. Ci si guarda bene dal riconoscere la causa ultima di quanto è successo, cioè la contraddizione di un modo di produzione capitalistico, storicamente dato, che non riesce più a valorizzare il capitale in misura adeguata attraverso la produzione manifatturiera e che eccede nella speculazione finanziaria, come ultimo tentativo di sopravvivere a se stesso, in una fase che alcuni studiosi individuano come lo stadio terminale di un sistema in via di estinzione. Una crisi di passaggio, da una formazione sociale incapace ormai di darsi una forma stabile di equilibrio sistemico, ad una nuova formazione sociale che ancora stentiamo a decifrare, con centri egemonici plurimi ed una fisionomia ancora indefinita: avremo nuovi centri e nuove periferie, nell’economia mondo, ma potremo vedere un assetto più delineato solo tra qualche decennio.Nel frattempo, è facile immaginare che le classi dirigenti di questo sistema maturo e decadente cercheranno di sopravvivere, sotto le bandiere e il credo innovatore della nuova amministrazione americana, a spese delle classi sociali subalterne, sia in termini di sfruttamento produttivo più intenso, sia in termini di distribuzione fiscale dei carichi impositivi, richiesti dal nuovo ruolo dello Stato nel sostegno al capitalismo privato. Nell’apparato industriale si darà il via ad una ondata di ristrutturazione radicale, di cui già si intravede il modello nel settore automobilistico, con tagli, chiusure, licenziamenti e delocalizzazioni, per riconquistare competitività attraverso un massiccio abbassamento del costo del lavoro. Nel sistema fiscale si tratta di prelevare, dalla quota del reddito destinata al lavoro, quelle risorse finanziarie destinate a sostenere, da una parte, le banche e le aziende in crisi, e dall’altra la spesa sociale di assistenza per garantire le fasce marginali della popolazione. Un enorme processo di redistribuzione di risorse, a danno degli sfruttati e a favore dei banchieri falliti, sotto il ricatto e la minaccia della caduta verticale della produzione, dell’occupazione, del reddito. Quanto sta avvenendo negli Usa non può che condizionare il resto del mondo. Anche l’Europa continentale, che aveva perseguito un modello di sviluppo più industriale che finanziario, ha dovuto arrendersi al contagio, ricapitalizzare le proprie banche ed attrezzarsi ad affrontare una dura recessione, con un cambiamento radicale delle proprie politiche monetarie, fiscali, economiche. Archiviata la retorica sugli aiuti di stato, tutti hanno aperto la strada ad interventi pubblici coordinati, in deroga ai criteri di Maastricht e alla rigidità della Bce.

Primus vivere, deinde philosophare.

La dimensione planetaria della interdipendenza economica non lascia fuori nessuna zona del mondo. La Cina e l’Estremo oriente, diventati negli ultimi 10 anni la vera “fabbrica” del globo, si chiedono attoniti cosa sarà delle loro riserve valutarie, detenute in dollari, in titoli del governo Usa, e quanto riuscirà ancora ad assorbire, delle loro merci, il mitico “consumatore” americano, adesso che gli ritirano la carta di credito. Anche la Russia se la passa male, dopo il crollo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, così come l’America Latina del Brasile, Venezuela, Argentina (sull’orlo del secondo crack in 7 anni). Persino i ricchi sceicchi del Golfo, che sono intervenuti tramite i Fondi Sovrani nell’azionariato di molte banche europee e americane, osservano perplessi il crollo delle quotazioni e l’assottigliarsi dei propri investimenti, mentre il petrolio passa di mano a metà prezzo, rispetto a tre mesi fa. Una serie di Stati sovrani dalla struttura finanziaria fragile balla sull’orlo del precipizio, mentre il Fondo Monetario Internazionale, per anni emarginato, torna alla ribalta con prestiti e consigli, mentre sforna mensilmente previsioni catastrofiche sull’andamento dell’economia mondiale del prossimo biennio. Intanto l’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) prevede un aumento di 20 milioni di disoccupati su scala mondiale, con il superamento della soglia dei 200 milioni di persone inattive.Questo per chi non avesse ancora compreso su quali spalle andranno a scaricarsi i “costi dell’aggiustamento”.

Il caso italiano

In un’Europa impegnata nella difficile ricerca di un ruolo politico autonomo dagli Usa e nell’impossibile tentativo di sganciare le proprie sorti dalla debacle economica globale, il nostro paese sperimenta una situazione di particolare difficoltà. La fragilità dei conti pubblici, la maturità dell’apparato industriale, l’arretratezza della dotazione infrastrutturale, il ritardo tecnologico, l’esiguità delle risorse dedicate alla ricerca scientifica, convergono nel produrre un quadro preoccupante rispetto alla capacità di competere sui mercati mondiali e di difendere sul lungo periodo la tenuta del modello sociale vigente. A tutta una serie di difficoltà oggettive, si aggiunge la presenza di un governo (e di un blocco di governo) particolarmente feroce, deciso ad usare il randello e le maniere forti per gestire la lunga fase di aggiustamento strutturale che ci attende. L’evoluzione politica dell’ultimo triennio rimarca il blocco del sistema e la sua incapacità di ricambio interno, con il fallimento sostanziale del centro-sinistra nel proporre un’uscita dalla crisi italiana alternativa alle proposte del centro-destra. Il panorama politico si è appiattito al ribasso sull’esigenza di garantire la governabilità, la stabilità finanziaria, la riduzione della spesa pubblica e la fluidità del mercato del lavoro; le due coalizioni si sono divise solo sulle modalità di gestione della fase, con o senza il consenso sindacale, con o senza la concertazione, con o senza adeguati strumenti di ammortizzazione sociale. L’esperienza di governo del centro-sinistra non ha mai potuto contare su una vera maggioranza politica ed ha bruciato velocemente l’esile consenso che era riuscita ad aggregare rispetto alla propria proposta politica: i più disincantati sono stati, fin da subito, i ceti popolari che avevano creduto nel governo Prodi e vi avevano riposto ragionevoli attese di cambiamento. Nessuna di queste speranze ha trovato soddisfazione, perché il governo ha in pratica riconfermato a grandi linee tutta l’impostazione politica precedente. Conferma del ritiro delle truppe dall’Irak, ma rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Riforma delle legge Maroni sulle pensioni con eliminazione dello “scalone”, ma riconferma dell’impianto di fondo sulla previdenza integrativa e addirittura un peggioramento sui criteri di uscita dopo il 2011. Nessuna abolizione della legge Biagi, ma rimodulazione delle flessibilità sul mercato del lavoro. Nessuna tassazione delle rendite finanziarie, ma mantenimento degli impegni sul cuneo fiscale a favore dei padroni e delle imprese. Nessuna correzione del fiscal drag a favore del lavoro, ma abbassamento delle aliquote sui redditi d’impresa, così come trasferimenti pubblici e sgravi fiscali per le aziende. La occhiuta sorveglianza dei conti pubblici, l’aumento della pressione fiscale, il taglio dei servizi hanno finito per spezzare quel fragile equilibrio politico su cui si reggeva la coalizione, riuscendo nella non facile impresa di deludere tutti: le classi popolari per il venir meno di ogni speranza di cambiamento sul terreno della redistribuzione del reddito e del mercato del lavoro, i ceti medi per i risultati conseguiti sul terreno della lotta all’evasione fiscale e la fine della logica dei condoni. I numerosi compromessi digeriti dalla sinistra radicale, appartenente alla coalizione, sono stati fatali nel determinarne la catastrofe elettorale, ma non sono stati sufficienti a compensare la debolezza intrinseca dovuta a quelle componenti moderate che non erano disposte a tollerare alcuna apertura sociale nel programma del governo. La nascita del P.d. e la svolta veltroniana hanno fatto il resto, minando il governo dall’interno, in direzione di una svolta verso il centro che si è tradotta in una disfatta elettorale senza precedenti, dalle conseguenze di lungo periodo.Il movimento sindacale si trova quindi a muoversi su un terreno assai deteriorato, con una fallimentare esperienza di governo “amico” ormai alle spalle e con un governo di centro-destra tornato al governo dopo soli due anni, cavalcando temi qualunquisti e razzisti, sfruttando pulsioni emotive dettate dal senso di insicurezza e di paura diffuse e radicate soprattutto in quelle componenti sociali che in teoria dovrebbero votare a sinistra. I primi provvedimenti del nuovo governo confermano le peggiori previsioni possibili sulle reali intenzioni della coalizione. L’eliminazione demagogica dell’Ici sulla prima casa finisce per drenare risorse a quegli enti locali sempre più indebitati e sempre più in difficoltà nel finanziare la spesa corrente, con l’ovvio preludio ad un taglio dei servizi sociali e all’innalzamento delle loro tariffe. La scure si sta abbattendo sul pubblico impiego ed in particolare sulla scuola, con un attacco frontale alla qualità del servizio pubblico, all’occupazione del settore, alla dimensione delle risorse destinate alla ricerca e all’università. L’attacco ai “fannulloni” del Ministro Brunetta riassume la concezione del governo rispetto al servizio pubblico, come di un affare da sistemare solo attraverso il ristabilimento della disciplina, più che come riorganizzazione complessiva in funzione dei bisogni di una società complessa.La posizione del governo rispetto alle tematiche sindacali è ben nota: trattare la riduzione dei diritti con quelle organizzazioni che si candidano al docile ruolo di controparte subalterna, senza preoccupazione alcuna di rompere l’unità sindacale. E’ la riproposizione dello schema del “patto per l’Italia” del 2001, con Cisl, Uil (e Ugl) disponibili a firmare (come nel caso dell’accordo ultimo sul pubblico impiego), ed una Cgil divisa al proprio interno tra la necessità di aderire, per continuare a far parte del teatrino sindacale, e la tentazione di resistere, con una conseguente emarginazione dalle trattative. Lo stesso tipo di contrapposizione investe naturalmente il nuovo accordo generale sullo schema della contrattazione: una agenda dettata dalla Confindustria che mira a svuotare il contratto nazionale, reintrodurre le gabbie salariali, riconsegnare alle singole aziende l’ultima parola sulla necessità di contrattare o meno, in base al proprio conto economico, aumenti salariali ricollegabili ad incrementi di produttività. E’ una rottura del modello contrattuale vigente dal 1993: non più la concertazione, che presuppone un quadro dove governo, imprese e sindacato fissano insieme un tasso di crescita dei salari compatibile con l’inflazione e la stabilità finanziaria, ma una cornice molto vaga di diritti elementari minimi che lascia spazio a veri aumenti salariali solo laddove le condizioni di profitto lo consentano, con detassazione di straordinari e premi di produttività fissati a livello aziendale. Una contrattazione estremamente frammentata, fondata sullo svuotamento del contratto nazionale di settore, concentrata nelle sole aziende più grandi, lasciando privo di tutela tutto il segmento della piccola e media impresa, dove si vanno concentrando gli effetti più pesanti della recessione in arrivo (100.000 posti di lavoro persi nell’ultimo anno). Se l’accordo del ’93 ha spostato in 15 anni 8 punti del Pil dai salari ai profitti (circa 7.000 euro annui a testa), è facile immaginare che l’azzeramento del CCNL porterà effetti ancora più devastanti sul reddito dei lavoratori.

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LA CRISI IN ITALIA (2)

 

Le dinamiche di settore

Il settore del credito ha vissuto per 10 anni una stagione eccezionale di profitti, approfittando di condizioni non più ripetibili. L’accordo quadro sul rinnovo contrattuale del 1999 ha portato ad una riduzione strutturale del costo del lavoro, che ha aperto la strada ad una ripresa degli utili in linea con la crescita del settore in Europa.Contemporaneamente è partito un processo di consolidamento che ha portato, soprattutto negli ultimi 3 anni, ad un forte concentrazione del settore, con le fusioni che hanno portato a formare tre grandi gruppi (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps) e tre gruppi medi (Ubi Banca, Banco Popolare, Bnl), che insieme si spartiscono oltre il 70% del mercato italiano, mentre solo Unicredit e, in parte, Intesa Sanpaolo, hanno una caratterizzazione internazionale trans-frontaliera. Questo carattere domestico del sistema italiano l’ha in parte preservato dagli eccessi e dalla crescita a leva che ha invece segnato l’espansione del settore bancario europeo, minandone la capacità di resistere alla crisi in corso. Questo ha fatto sì che le banche italiane fossero un po’meno deboli di fronte alla crisi e, fatto salvo forse il caso Unicredit, possano gestire il miglioramento dei coefficienti patrimoniali in modo graduale, senza l’emergenza del fallimento imminente. Tuttavia esistono, anche nel caso italiano, elementi di debolezza strutturale del settore bancario, che sono ormai sotto gli occhidi tutti.– uno Stato che ha già il terzo debito pubblico più ampio del mondo e quindi non ha la capacità di supportomessa in campo, per fare un esempio, da Germania, Francia o Gran Bretagna;– una struttura produttiva domestica scarsamente competitiva, con bassi tassi di crescita e difficoltà di riposizionamento nella divisione internazionale del lavoro;– una caduta di fiducia da parte dei risparmiatori, frutto delle politiche commerciali aggressive e inadeguate degli anni trascorsi, che si sono tradotte in forti perdite patrimoniali per i clienti, elevato contenzioso e, nel migliore dei casi, portafogli ingessati su prodotti lunghi e poco efficienti;– una crisi strutturale del risparmio gestito, che ha rappresentato per anni una importante fonte di introiti, e che conosce un collasso verticale senza alcuna inversione di tendenza (unico caso in Europa);– una concorrenza sui mutui molto più ampia e quindi una riduzione dei margini, su volumi peraltro in forte contrazione;– una notevole riduzione degli spread1 sull’intermediazione tradizionale, per la presenza, da una parte, di elevate remunerazioni della liquidità con canali alternativi (conto arancio e i suoi fratelli), dall’altra di assegnazione di rating in base a Basilea 2 e quindi selezione del credito, con abbassamento dei margini.L’insieme di questi elementi porta a prevedere la necessità di una totale rivoluzione del modo di fare banca e soprattutto l’inevitabilità di una forte compressione dei profitti, che tenderanno del resto ad allinearsi al ritmo di sviluppo del resto del paese, che è da anni a crescita zero e che si trova ad affrontare una delle crisi più severe della sua storia. Il dimezzamento degli utili tra 2007 e 2008 è il primo segnale forte che salta all’occhio. Non è pensabile che tutto questo non abbia conseguenze sul modello contrattuale e sui contenuti della contrattazione. In estrema sintesi, possiamo affermare che il processo di consolidamento del settore è stato gestito con strumenti “morbidi” in quanto era collegato a forti risparmi di costo e all’impennata dei profitti. Il patto implicito era che nessuno si sarebbe fatto male: i risparmi sono stati usati per rimpinguare utili e dividendi, ma in parte hanno finanziato il fondo esuberi, che ha accompagnato fuori dal ciclo produttivo decine di migliaia di lavoratori esodati. In questo modo le banche hanno autofinanziato lo svecchiamento e la riduzione degli organici, senza pesare, se non in minima parte, sulle finanze pubbliche e sui bilanci dell’Inps.Adesso si tratta di capire se questo processo possa ancora essere gestito in questo modo. E’ vero che molto lavoro è già stato fatto, che gli organici sono inadeguati e insufficienti e che gli apprendisti e i precari assunti dopo il 2005 possono rappresentare un polmone occupazionale da usare in modo flessibile, da lasciare a casa quando l’emergenza lo richiedesse. Ma è difficile pensare che le aziende abbiano davvero interesse a disperdere il capitale umano già formato, che hanno contribuito a creare: un capitale umano che del resto costa poco, è giovane, flessibile, adatto a farsi “spremere”. E’ più probabile, e mi rendo conto che è una ipotesi forte, che le aziende tornino alla carica su tutta la struttura dei costi, vale a dire sull’insieme delle condizioni salariali e normative che tuttora tengono alta la struttura contrattuale della categoria e dei trattamenti aziendali. Se questa ipotesi venisse confermata, ci troveremmo nell’arco di poco tempo ad un nuovo giro di vite, con richieste aziendali di procedere a nuovi riassetti dell’area contrattuale, nuovi regimi d’orario, nuova struttura retributiva ed incremento della quota salariale variabile, non contrattata e legata ai risultati. Il “secondo tempo”, migliorativo, che alcune sigle sindacali vanno promettendo, dopo i necessari sacrifici insiti nelle fusioni, rischia così di rovesciarsi nel suo opposto: una nuova stagione di rinunce e di svendite di diritti acquisiti, per consentire alle banche di reggere di fronte alla crisi in arrivo.

 

NOTE:

1 In finanza, il termine spread può essere usato con diversi significati:Il bid-ask spread, o differenziale denaro-lettera, rappresenta la differenza tra il migliore prezzo di acquisto (bid) e il migliore prezzo di vendita (ask), in riferimento alle condizioni tecniche che facilitano l’incontro di domanda e offerta di attività finanziarie e la formazione dei prezzi; Il credit spread denota il differenziale tra il tasso di rendimento di un’obbligazione caratterizzata da rischio di default e quello di un titolo privo di rischio (ad es., un titolo di stato a breve termine, quale in Italia il BOT); Uno spread è inoltre un’operazione finanziaria che combina diverse attività finanziarie, tipicamente titoli derivati, al fine di ottenere un determinato valore a una data scadenza. Lo spread (oscillazione, scarto) è quello applicato dagli istituti di credito alle operazioni di prestito, fiduciario ipotecario: lo spread viene aggiunto al costo del denaro e la somma dei duedà il tasso nominale [ndr].

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Sciopero del 12 dicembre, USI sezione Parma

Comunicato ufficiale

La sezione di Parma, sentiti gli iscritti e consapevole della profonda spaccatura in atto anche tra le sigle del sindacalismo di base, ritiene opportuno, contrariamente a quanto deciso a livello nazionale, non aderire allo sciopero perché quel giorno la presenza del sindacalismo di base sarebbe di fatto annullata dalla presenza CGIL, sindacato col quale da sempre non vogliamo avere niente a che fare. Il rischio concreto è solo di fare numero per altri, che noi consideriamo alla stregua di contro-parte. Ciò detto, se a livello locale saranno fatte iniziative, ciò non toglie che potremo, informalmente, partecipare, nel puro spirito di collaborazione locale tra sigle.La CGIL, come sempre fa quando governa il centrodestra, sull’onda delle proteste diffuse scaturite dalla crisi si erge a “paladina degli sfruttati” e proclama uno sciopero per il 12 dicembre, recitando come da copione un ruolo di fittizia rottura con le altre componenti della triplice confederale. Ed ecco che, di nuovo, per riflesso condizionato, subito scatta la sindrome da suggestione: “bisogna esserci”, “è un treno decisivo”, “se non partecipiamo siamo dei settari”, ecc. Così facendo, accettando che sia la CGIL a dettare tempi e ritmi, aderendo di fatto alla chiamata del “grande sindacato” col rischio concreto di fare solo numero (e dimenticando che se adesso i lavoratori sono in uno stato di crisi e paralisi generalizzato, si deve anche alle politiche concertative della CGIL), si finge d’ignorare che questa decisione rappresenta un arretramento di almeno 15 anni del sindacalismo di base: mai era capitato, a memoria, una convergenza di parte così ampia del sindacalismo di base con la CGIL su un momento di così grande importanza come lo sciopero. E sia detto per inteso: capiamo la smania dei militanti per “fare sciopero” (noi stessi, che da sempre ne organizziamo e ci partecipiamo, soffriamo per questa situazione schizofrenica), capiamo la voglia di non assentarsi dalla lotta: comprendiamo tutto. Ma non possiamo non analizzare razionalmente cosa rappresenta scioperare quel giorno con quei compagni (?) di strada. Poco importa se la nostra piattaforma sarà diversa: quel giorno –e speriamo di sbagliarci- l’unica vincitrice sarà la CGIL. Non si poteva fare un altro giorno? Niente da fare: la forza della suggestione movimentista è più forte di tutto. E si badi bene: la nostra sezione non è formata da un cenacolo d’intellettuali libertari che rifiuta di sporcarsi le mani: al contrario, siamo lavoratori, da sempre aperti alla collaborazione totale con soggetti diversi. Ma tutto ha un limite. Restiamo in attesa di autorganizzarci per uno sciopero veramente di base, alternativo, indetto con modalità rispettosa della nostra prassi libertaria e dignità.  PER L’AUTORGANIZZAZIONE DEI LAVORATORI  Parma, 8 dicembre 2008

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riflessioni sulla “rivolta” della scuola

La protesta del mondo della scuola contro la “riforma Gelmini”, che vede insieme studenti, insegnanti, personale non docente e genitori, e che si estende dalle elementari fino all’università, per quanto a prima vista possa apparire sostanzialmente unitaria, presenta in realtà varie facce e offre più di una chiave di lettura, oltre a porre un certo numero di interrogativi.Proviamo a partire dalla situazione generale della scuola e dei giovani. La scuola è sempre stata soggetta a riforme, questa non è certo la prima volta. In passato ha già subito dei tagli e delle modifiche. Alcune di queste modifiche l’hanno forse migliorata. Altre sono state sicuramente peggiorative. Certi problemi non si sono mai voluti o saputi affrontare. Allo stesso tempo, infatti, pur subendo svariate piccole “rivoluzioni”, la scuola ha mantenuto tutta una serie di arcaismi che sembrano del tutto immodificabili. Basti pensare ai programmi, in particolare quelli della scuola media, inferiore e superiore. (Un discorso diverso è da fare sulle elementari, come vedremo più avanti). Ai libri di testo. E poi l’edilizia scolastica, la conformazione delle aule, il sistema educativo che mantiene di fatto un’impostazione gerarchica e autoritaria e una logica basata sul “premio-castigo” (logica che, se andiamo a vedere, informa anche i luoghi di lavoro e l’intera società). Contemporaneamente, la si assimila e la si ingloba all’interno dell’altra logica che da tempo è dominante, quella del “management”, quella del “marketing”, cioè del prodotto, del profitto e quindi della merce, logica anche questa che si estende su tutta la società, una società che ha mercificato ormai ogni cosa, anche i diritti minimi ed essenziali (la casa, il reddito, la salute…). L’attuale assetto sociale-politico-economico nel suo complesso, da alcuni anni a questa parte, esclude i giovani, precarizzando il lavoro e quindi la loro stessa vita, il loro futuro (che è il futuro di tutti!), sembra volergli negare la possibilità di diventare adulti, di avere una famiglia propria, una propria abitazione. E’ una società che ritarda il pensionamento dei lavoratori anziani, che è restia pertanto a far entrare i giovani nel mondo del lavoro, nel mondo della ricerca, dello studio applicato e messo a frutto e non fine a se stesso, nel mondo della politica, e ovunque si prendano decisioni o si possa interagire in qualche modo con i vari aspetti e problemi che compongono la realtà. Le decisioni che riguardano i giovani, vengono prese totalmente senza di loro. Del resto questo è altrettanto vero per le decisioni che riguardano tutti, anche se il sistema delle rappresentanza e della delega dissimula molto bene questo fatto e lascia credere che in realtà tutti si partecipi e si possa decidere, in questo tipo di assetto socio-politico, delle proprie vite e delle cose che ci riguardano. Potremmo allora chiederci: si tratta forse di una presa di coscienza e di una protesta nei confronti dell’intero impianto socio-politico, di una ribellione a questo mercato globale a cui tutti siamo asserviti? Ci troviamo di fronte ad una lotta per un futuro diverso? Un futuro migliore per tutti, non dedicato soltanto a soddisfare gli interessi e i profitti di pochi? Un futuro più giusto, più equo e più libero? Tutto ciò potrebbe avere un senso, e la “rivolta degli studenti” dovrebbe allora sorprendere piacevolmente, anziché essere criminalizzata, come avviene da parte di alcuni. Anche qualora si trattasse di una lotta non volta necessariamente a un cambiamento radicale e profondo, ma limitata a vedersi riconoscere perlomeno le stesse possibilità che sono state offerte a generazioni precedenti, sarebbe in ogni caso positiva. L’esistenza in sé del resto sta diventando sempre più difficile e incerta un po’ per tutte le classi di età e per sempre più ampi strati sociali. E i giovani potrebbero aver deciso di farsi carico, come in altre epoche è già avvenuto, con più o meno consapevolezza, di una messa in crisi o di un tentativo di capovolgimento dell’assetto e dei dis-valori attuali. Potrebbero volerlo fare solo a proprio nome, in contrasto quindi con il mondo adulto o una sua parte, o forse invece a nome di tutti. Ci può stare? Può trattarsi di questo? O riguarda invece soltanto i punti specifici della riforma della scuola?    Questa “riforma” – che riforma non è – è semplicemente l’applicazione delle direttive contenute nella finanziaria Tremonti, direttive che sono già note da alcuni mesi, per cui appare per lo meno singolare che la protesta esploda soltanto ora. E’ una “riforma” che investe particolarmente la scuola elementare, quella che in misura maggiore aveva beneficiato di cambiamenti profondi che si sono poi rivelati nel corso degli anni molto positivi. Come tutti ben sanno, si vuole tornare al maestro unico e ridurre di fatto drasticamente il tempo pieno (questo perché si vogliono ridurre i posti di lavoro), quel tempo pieno che aveva offerto invece un insegnamento di buon livello, e non si era trattato soltanto di un “parcheggio” per i figli delle madri lavoratrici, oltre a questioni obiettivamente meno importanti come il voto o il grembiule. (In sostanza si tratta di risparmi, di tagli mascherati da riforma, con piccoli “correttivi” su questioni marginali, anche se non del tutto prive di significato). In grande rischio appare poi l’università, indirizzata alla totale privatizzazione (proponendo di trasformarla in fondazione), all’esclusione del prezioso lavoro svolto dal personale precario, mentre non si toccano di certo le caste e i privilegi di sempre. La scuola secondaria è meno coinvolta, per quanto sia comunque prevista una riduzione delle ore di insegnamento. Che di una riforma vera e seria della scuola ci sia bisogno, così come di utilizzare al meglio le risorse, questo nessuno lo nega. Ma ciò che questo governo ha deciso unilateralmente di fare, con scarsa competenza e coscienza, è ben altro! Non sono solo tagli, è di peggio e di più, o per meglio dire è molto meno, si tratta infatti di un grave arretramento e impoverimento, in tutti i sensi, che va a colpire in primis gli studenti più giovani e alla fine un po’ tutti. L’opposizione contesta, e sembra non voler ricordare né a se stessa né agli altri i suoi precedenti interventi sulla scuola e l’università, non tutti lodevoli. L’adesione alla protesta dei partiti di centro-sinistra e dei sindacati di stato desta più di un interrogativo. La si vuole trasformare nel solito scontro tra governo e opposizione? Tra “progressisti” e “conservatori”? E’ una semplice questione sindacale da risolvere con uno dei tanti accordi sulla nostra pelle?  E’ una lotta da cavalcare per fini elettorali?Gli studenti in realtà sono scesi in lotta in modo autonomo e indipendente, questo è ciò che appare e che dicono, e non vogliono dare una coloritura partitica, alla loro protesta. Ma è inevitabile che ci sia già, o ci sarà presto, chi si attrezzerà per farlo. Infine, questo movimento è un qualcosa che può farci ricordare – anche se con tutte le dovute differenze – il Sessantotto? C’è una voglia autentica di rinnovamento? Una critica profonda dell’attuale società? O è solo incertezza, paura del futuro? Oppure quello che circonda questo movimento ci ricorda piuttosto le asprezze del settantasette, gli scontri di piazza, le provocazioni e l’ambiguità dei poteri dello Stato? E’ possibile vedere studenti e lavoratori lottare insieme per migliorare le condizioni e le prospettive di vita, e darsi sostegno l’un l’altro?  La storia non si ripete mai uguale, ma la storia insegna, soprattutto a riflettere. E ora è di certo presto per avere tutte le risposte, è prematuro trarre delle conclusioni, dobbiamo ancora vedere come andrà a finire, specialmente ora che la “Gelmini” è diventata legge. Dobbiamo ancora capire fino in fondo i contenuti del movimento, riconoscere cosa c’è – se qualcosa davvero c’è – che ha la possibilità di mettere delle radici, la capacità di non essere contaminato o disperso in fretta da una folata di vento né il rischio di estinguersi da sé.  C’è la possibilità di non ricalcare vecchi schemi, di non ricadere in vecchie trappole, di non darsi per vinti.   C’è la possibilità di non sprecare questa situazione così ricca di premesse.  C’è la possibilità, anche e soprattutto, di riprendere in mano le proprie vite, agendo in piena coscienza e autonomia, di appropriarsi in qualche modo di ciò che di fatto ci appartiene.  C’è la possibilità, a partire dalla scuola, di lottare contro tagli, privatizzazioni e logiche di mercato, ma con la consapevolezza di non dover delegare tutto allo Stato, iniziando a pensare ad una società profondamente diversa, fondata sulla cooperazione e la solidarietà di liberi ed uguali.  

Se il futuro è ancora da scrivere, dietro l’angolo potrebbe attenderci una svolta. Potrebbe esserci un’occasione da cogliere. E questo dipende da tutti quanti noi.

USI Genova 05/11/2008

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PRINCIPI E STATUTO DELL’ USI-AIT

Principi:

1 – L’U.S.I. aderisce all’A.I.T. (Asociacion Internacional de los Trabajadores).

2 – L’U.S.I. è l’organizzazione nazionale di tutti i salariati, pensionati, precari, disoccupati, di ogni sesso e nazionalità residenti in Italia che si propongono di raggiungere con le proprie forze l’emancipazione dell’uomo liberandosi da qualsiasi dominio economico, politico, morale.

3 – L’U.S.I. ha per scopo di sostituire alla presente società autoritaria e capitalista, l’organizzazione federalista e razionale della produzione e della ripartizione, alla lotta fra gli uomini la solidarietà umana.

4 – Mentre tende alla socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, all’abolizione dello stato e dei dogmi, l’U.S.I. si adopera a realizzare per i lavoratori tutti quei miglioramenti materiali e morali immediati: diminuzione della giornata lavorativa, aumento del potere d’acquisto, rispetto ed igiene sul posto di lavoro e quant’altro il proprio rapporto di forza consentirà per tempo e per luogo.

5 – L’U.S.I. è autonoma. Non è tributaria di alcun partito politico, movimento specifico, filosofico e religioso, e si rifiuta di seguire chicchessia in azioni non concordate; rifiuta ogni alleanza permanente. L’U.S.I. si impegna solo per fatti ed azioni limitati e ben definiti; pertanto qualunque aderente che si lasciasse portare candidato politico o di pubblici poteri cesserà automaticamente di far parte dell’U.S.I..

6 – L’ U.S.I. combatte la gerarchia di salari e stipendi, fattore di disunione tra i lavoratori; non riconosce la scala dei valori, perchè oltre ad essere una creazione artificiale, essa non può esistere che in una società fondata sull’antagonismo degli interessi.

7 – La struttura organica ed il funzionamento dell’U.S.I. sono di tipo federalista, contrari ad ogni accentramento burocratico e corporativo.

8 – Nel caso in cui l’afflusso di elementi eterogenei desse luogo ad una votazione maggioritaria a scopo deviazionista dal carattere originale dell’U.S.I., questa è automaticamente sciolta e la si intende ricostituita seduta stante secondo le norme e lo spirito dei suestesi princìpi con diritto esclusivo a tutto il capitale sociale.

9 – Qualora una struttura organizzativa locale o di categoria dovesse sciogliersi, il suo capitale sociale sarà devoluto all’U.S.I. e se l’U.S.I. dovesse sciogliersi, il suo capitale sociale sarà devoluto all’A.I.T..

10 – I suestesi princìpi potranno essere modificati dal solo Congresso nazionale, sempre che questo non significhi una deroga allo spirito informatore dell’U.S.I..

11 – Gli incaricati alle mansioni organizzative per il funzionamento dell’U.S.I., liberamente eletti dagli organizzati, svolgono il loro mandato eseguendo volta a volta i deliberati delle assemblee.

12 – Gli organi dell’U.S.I. (sezionali, di settore, locali, provinciali, regionali, nazionali) sono esecutivi; mentre sono deliberativi: le assemblee di sezione e di categoria, degli organismi locali e regionali. A livello nazionale è deliberativo il Congresso Nazionale e, per i casi previsti nello statuto, il Comitato dei Delegati.

13 – Ogni commissione o delegato è organo esecutivo dell’assemblea che lo ha nominato ed esplica solo quelle mansioni di cui è manndatario.

14 – I membri della Commissione Esecutiva vengono eletti direttamente dagli organizzati mediante il congresso, i quali possono sostituirli ogni qual volta lo ritengano opportuno.

15 – La Commissione Esecutiva partecipa, attraverso il responsabile alla stampa, alla redazione del giornale nazionale dell’U.S.I..

16 – Il Congresso dell’U.S.I., che ha luogo ogni tre anni, viene organizzato dalla Commissione Esecutiva in funzione esecutiva dei deliberati delle assemblee locali, sezionali e di categoria.

17 – Il Congresso Nazionale può essere inoltre convocato straordinariamente ogni qual volta richiesto dalla maggioranza degli aderenti, ferme restando le disposizioni del punto 16°.

18 – L’ U.S.I. trae i mezzi finanziari dal tesseramento.

19 – Il capitale sociale dell’U.S.I. serve esclusivamente per l’attività sindacale.

 Statuto:

ART.1 – L’Unione Sindacale Italiana ha per scopo di riunire in un’organizzazione nazionale tutti i lavoratori di ambo i sessi e di ogni nazionalità che si propongono di raggiungere con le proprie forze l’emancipazione integrale dal privilegio del capitale fino all’eliminazione di ogni forma di sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo. L’U.S.I. si ricollega alla tradizione storica del sindacalismo rivoluzionario ed autogestionario e si pone come alternativa di classe ed organizzazione di tutti gli sfruttati, gli emarginati, gli oppressi.

ART.2 – La struttura organizzativa dell’U.S.I. è basata sul sistema federalista libertario, contrario ad ogni accentramento burocratico e corporativistico, sull’assemblearismo, sull’autogestione nonchè sulla solidarietà intercategoriale sia come prassi interna che nelle lotte che l’Unione svolge e nella società che intende costruire, società basata sull’emancipazione completa di ogni individuo.

ART.3 – L’azione sindacale che l’U.S.I. divulga e propugna è la lotta di classe contro qualsiasi sfruttamento. Ogni qualvolta si presenti la necessità, di fronte ai problemi sociali ed economici, l’U.S.I. si assume piena responsabilità dell’azione sindacale approvata mediante libere assemblee degli associati.

ART.4 – Nessuno degli aderenti può cercare di introdurre nell’U.S.I. la politica di partito che professa ed asservirla ad una casta padronale o religiosa.

ART.5 – Compongono l’U.S.I.: tutti gli iscritti, le unioni locali intercategoriali, i sindacati autogestiti aziendali e/o territoriali di categoria, le federazioni provinciali e regionali intercategoriali e i sindacati nazionali di categoria, con le loro articolazioni periferiche, che accettano il presente statuto, le cui attività saranno esplicate tramite propri esponenti liberamente eletti dalle assemblee.

ART.6 – Compiti delle unioni locali e delle federazioni provinciali e regionali a livello intercategoriale sono: a) curare la corrispondenza con la segreteria nazionale dell’U.S.I.; b) riscuotere e trasmettere le quote di pertinenza della cassa nazionale; c) ricevere e far conoscere agli aderenti le comunicazioni e le attività dell’U.S.I.. Le unioni locali e le federazioni provinciali e regionali eleggono ciascuna una propria segreteria che rappresenta l’U.S.I. a livello locale, provinciale e regionale a tutti gli effetti sindacali, contrattuali e di legge, assolvendo altresì ai compiti sopracitati.

ART.7 – In tutte le categorie di produzione e di scambio, del settore pubblico o privato, possono essere costituiti sindacati di categoria, settore e comparto a livello nazionale a mezzo di libere assemblee degli iscritti all’U.S.I.. L’assemblea costituente il sindacato nazionale elegge al suo interno almeno cinque responsabili firmatari dell’atto costitutivo. Ogni sindacato è autonomo nel suo funzionamento: a) coordina la propria attività ed organizzazione con quella delle unioni locali e delle federazioni provinciali e regionali intercategoriali dell’U.S.I.; b) provvede alla speciale e minuziosa propaganda fra i lavoratori; c) dà vita in genere a movimenti di sua spettanza che abbiano rilevanza nazionale e assiste quelli a livello locale; d) nomina la sua delegazione per il comitato dei delegati; e) si articola sul territorio nazionale riconoscendo sindacati aziendali e/o territoriali, federazioni provinciali e regionali; f) nell’ambito del settore, del comparto e della categoria di propria esclusiva competenza, partecipa alle trattative, stipula accordi e firma contratti collettivi solo dopo che questi siano stati già sottoscritti a livello decentrato ovvero approvati a seguito di assemblea o referendum; g) nomina una propria segreteria con compiti di rappresentanza sindacale, contrattuale e di legge; h) riscuote e trasmette le quote di pertinenza della cassa nazionale. Tutti gli iscritti ai sindacati nazionali di settore, di comparto e di categoria sono di diritto iscritti all’U.S.I. ed hanno diritto a partecipare alla vita ed all’attività dell’unione locale e delle federazioni provinciali e regionali a livello intercategoriale.

ART.8 – Gli organi deliberativi dell’U.S.I. sono: 1) il congresso; 2) il comitato dei delegati. Il congresso si convoca normalmente ogni tre anni, nell’epoca e nel luogo fissati dal comitato dei delegati almeno sei mesi prima della data di convocazione. La segreteria nazionale è tenuta a rimettere a tutte le strutture intercategoriali e ai sindacati nazionali le relazioni e i bilanci almeno quattro mesi prima del congresso.

ART.9 – I poteri del congresso sono: a) rivedere, modificare o rinnovare lo statuto dell’U.S.I., quando lo ritenga necessario, con il voto favorevole di almeno i tre quarti dei delegati presenti; b) esprimere la strategia generale dell’organizzazione rapportata al momento generale che si vive; c) fissare gli obiettivi generali comuni su cui muoversi; d) nominare la segreteria nazionale e la commissione esecutiva ed eleggere la redazione dell’organo di stampa ufficiale dell’U.S.I..

ART.10 – Il comitato dei delegati è un organo composto da delegati espressi da tutte le unioni locali e dai sindacati di categoria, settore e comparto esistenti oltre che dai rappresentanti della commissione esecutiva e della segreteria nazionale. Il comitato dei delegati ha i seguenti incarichi: a) regolare il funzionamento della segreteria nazionale; b) convocare i congressi ordinari e straordinari, fissandone la data, la località e l’ordine del giorno; c) deliberare rispetto a fatti che richiedano un’azione urgente o immediata, sempre nei limiti della strategia politico-sindacale espressa dall’U.S.I. mediante i congressi; tali deliberati devono essere successivamente ratificati dalle strutture locali; d) deliberare provvisoriamente su eventuali richieste di patti federativi e/o alleanze con associazioni sindacali e sociali a carattere nazionale; tali delibere dovranno essere ratificate in sede congressuale.

ART.11 – Il comitato dei delegati si riunisce di norma ogni sei mesi; inoltre straordinariamente tutte le volte che lo ritengono necessario unitariamente la segreteria nazionale e la commissione esecutiva.

ART.12 – L’organo esecutivo dell’U.S.I. è la commissione esecutiva, composta da membri eletti dal congresso. I compiti della commissione esecutiva sono: a) tenere il collegamento con le strutture territoriali ed i sindacati nazionali; b) stampare il bollettino interno nazionale e curarne la distribuzione; c) tenere la contabilità amministrativa; d) gestire i rapporti con l’A.I.T. e con le sezioni dell’Internazionale; e) inviare le convocazioni del comitato dei delegati. I responsabili della redazione dell’organo di stampa ufficiale dell’U.S.I. sono membri della commissione esecutiva.

ART.13 – La commissione esecutiva è composta da: a) uno o più responsabili della cassa nazionale; b) uno o più responsabili delle relazioni internazionali; c) uno o più responsabili della redazione dell’organo di stampa ufficiale dell’U.S.I.; d) uno o più responsabili organizzativi; e) uno o più responsabili del bollettino interno; eletti nominativamente dal congresso.

ART.14 – La segreteria nazionale è composta da un segretario generale nazionale e da un vicesegretario eletti dal congresso. Il segretario generale dell’U.S.I. ha compiti esclusivamente di rappresentanza dell’organizzazione, opera per l’unità della stessa, può mandare circolari propositive agli iscritti, è direttore responsabile dell’organo di stampa ufficiale dell’Unione e cura, insieme alla commissione esecutiva, il coordinamento dell’Unione all’interno ed all’esterno. Il segretario generale nazionale ha la rappresentanza ad ogni effetto di legge e contrattuale dell’U.S.I. con facoltà per lo stesso di subdelega al vicesegretario.

ART.15 – L’U.S.I. fa fronte alle spese inerenti al suo funzionamento mediante: a) la riscossione per ogni singolo iscritto di un contributo annuale minimo obbligatorio la cui misura è stabilita dal congresso; b) l’acquisizione di contributi volontari straordinari approvati dal comitato dei delegati; c) l’acquisizione di sottoscrizioni e di donazioni. Le modalità del tesseramento e dei contributi sindacali vengono deliberate dal congresso. Il contributo minimo obbligatorio stabilito dal congresso a sostegno dell’organizzazione nella sua articolazione nazionale ed internazionale dovrà essere pagato non oltre il trenta aprile dell’anno successivo a quello cui si riferisce. Gli iscritti ed i sindacati sono obbligati a versare le quote suddette nei termini previsti, salvo casi particolari che verranno valutati dal comitato dei delegati.

ART.16 – Per lo sviluppo dell’U.S.I. si fa invito alle organizzazioni ed agli associati di sostenere l’organo ufficiale di stampa.

ART.17 – L’U.S.I. fa proprio il principio della rotazione degli incarichi. Ogni carica è elettiva e designata da libere assemblee degli associati. Gli incaricati di compiti organizzativi per il funzionamento dell’U.S.I. svolgono il loro mandato eseguendo volta per volta i deliberati delle assemblee.

ART. 18 – Il funzionamento dell’U.S.I. è sostenuto principalmente dall’impegno volontario degli associati. L’Unione è consapevole che tale impegno svolge una funzione sociale insostituibile per il raggiungimento e la difesa di una società che garantisca il pieno sviluppo dell’uomo nella giustizia e nella libertà. Pertanto l’U.S.I. è contraria al sindacalismo di mestiere e si batte affinchè tutti i lavoratori si autogestiscano l’utilizzo pieno dei diritti sindacali.

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NO AL PROTOCOLLO DEL 23 LUGLIO 2007

CGIL, CISL, UIL, UGL, Confindustria, Governo ed altre organizzazioni sociali pubblicizzano il loro patto, come un netto miglioramento delle condizioni sociali per lavoratori e pensionati.In realtà esso è un insieme di semplici auspici che dovrebbero essere volti a:innalzare di valore le pensioni più basse. garantire sgravi contributivi su ore straordinarie e premio di produzione.permettere ai giovani con lavori discontinui di sommare i vari periodi con contributi figurativi.modulare nei prossimi 4 anni il famoso “scalone” Maroni del 2008.riconoscere il diritto ad una pensione anticipata a chi fa lavori usuranti.aumentare il trattamento di disoccupazione.ed altri modesti provvedimenti di tipo economico-amministrativo a fronte di un serio impoverimento.In realtà è un ennesimo accordo-truffa, come quelli subiti sulla trattativa del costo del lavoro nel ’92, come l’eliminazione della scala mobile, come la riforma pensionistica Dini nel ’95, come la riforma sul TFR, ecc.Basta! non avvaliamo questo patto, i sindacati che lo firmano non sono più credibili!Se il governo si dice sensibile alle esigenze di chi ha meno, è inutile che perda tempo con trattative che assomigliano a mercanteggiamenti con rappresentanti “sociali” cresciuti e mantenuti a sovvenzioni e privilegi.

-Innalzi i salari e le pensioni più basse, tagli le più alte e le agganci al costo reale della vita.

-Diminuisca le aliquote contributive a carico dei lavoratori e la tassazione sul TFR, invece che alzarle come fatto recentemente.

-Riduca nei CCNL il tetto massimo annuale delle straordinarie a 90 h in modo da garantire nuove assunzioni.

-Garantisca il diritto alla pensione dopo 35 anni lavorativi o 55 anni di età a chi fa lavori pesanti anche saltuariamente nell’arco della settimana e comunque a tutti, dopo 38 anni lavorativi o 60 anni d’età e non aumentarli verso i 41 e più anni lavorativi e 70 anni d’età come sta facendo!-Riduca drasticamente la precarietà ed introduca opportunità reali a giovani e disoccupati.A riprova che non ci si deve fare illusioni sulla volontà del governo di rinvigorire i redditi dei “subordinati” basti notare che nel protocollo si ripete continuamente che i tetti di spesa non andranno superati…Per non avvallare questi loro maneggi,

al prossimo referendum del 8-9-10 ottobre, vota NO!

Ma votare no, probabilmente non basterà, perché abbiamo ragione di credere, da tanti segnali che ci arrivano, che a tale referendum è già stato deciso che dovrà vincere il Sì, non foss’altro perché la Triplice perderebbe la faccia…

Per tale ragione invitiamo tutti a partecipare il

                      

Sciopero Generale!

 Per imporre che vengano adottate le misure sopraindicate e inoltre per:-difendere i beni e servizi primari (sanità, casa, istruzione e cultura, telecomunicazioni, trasporti, acqua, energia, ambiente non inquinato, ecc.) affinché siano di proprietà pubblica e garantita a tutti la piena accessibilità.-il rispetto della dignità dei lavoratori migranti e la cessazione di pratiche vessatorie nei loro confronti.

-il taglio delle spese militari ed il rientro delle truppe italiane all’estero per debellare la mentalità guerrafondaia, il militarismo e tutte le sue conseguenze.

Segr. Naz. USI/AIT   2/19/2007

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IL LAVORO RENDE LIBERI

A 60 anni dalla Costituzione!

Milioni e milioni di giovani, nelle condizioni economiche attuali, rischiano dl non poter godere per un lungo periodo di quel fondamentale diritto/dovere che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini che non posseggono altro che le loro catene, che è il lavoro salariato. Viene a mancare così per intere generazioni le stimolo al risveglio antelucano, una delle più vive e salutari tradizioni del nostro sistema di vita; in secondo luogo la regolarità e il buon umore che caratterizzano l’esistenza dell’onesto lavoratore cedono il passo alla confusione, all’angoscia, alla devianza. Il lavoro, infatti, come sottolineano psicologi, sessuologi, criminologi, è un ottimo rimedio contro le droghe, la pederastia, il bestialismo… e sembra anche della gotta.

Al contrario, per i lavoratori già occupati, si aprono prospettive inattese di incentivazione e di sviluppo della propria capacità lavorativa: la creatività e l’esuberanza dei lavoratori adulti potrà espandersi ora, anche attraverso il lavoro straordinario e flessibile, fino a limiti che in passato sembravano irraggiungibili.Ma non è giusto lasciarsi trascinare dall’entusiasmo di fronte a questi risultati: mentre la pianta sana dei lavoratori occupati si espande rigogliosa, si isterilisce sempre più l’arbusto secco della gioventù infingarda, marginale e teppista.Pertanto le forze sindacali concertative e le forze democratiche, unite alla associazione genitori-figli-scappati propongono le seguenti occupazioni per i giovani disoccupati/inoccupati:

a) cancellazione delle scritte (scuole fabbriche università vespasiani)

b) incremento delle vocazioni sacerdotali e monacali, oltreché poliziesche

c) rimboschimento delle montagne calve dell’Appennino e delle isole

d) ripulitura dei volumi giacenti nelle biblioteche pubbliche, pagina per pagina

e) muratura dei centri occupati

f) costituzione di gruppi di animazione edificante per giovani emarginati

g) colloqui di orientamento e di disorientamento

h) ritrovamento definitivo dei residuati bellici della prima guerra mondiale

i) costituzione di centri di rieducazione morale per lavoratori assenteisti

SACRIFICARSI NON BASTA OCCORRE IMMOLARSI

USI Genova  05/02/08

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Solidarietà a Emmanuel Bonsu

La sezione di Parma dell’Unione sindacale di Parma, Esprime totale solidarietà a Emmanuel Bonsu, aggredito dai vigili urbani, nell’ennesimo atto a sfondo razziale commesso a Parma.
Proviamo sdegno e rabbia per il comportamento tenuto dagli squadristi dell’ordine, il cui unico intento era aggredire il malcapitato senza identificarsi, ed ancor più grave l’aggressione subita in caserma, umiliato e percosso con lo scopo di firmare un verbale in cui doveva ammettere  dichiarazioni infondate su sue collaborazioni con spacciatori. Sono metodi vigliacchi utilizzati sotto una dittatura, o questo è il preludio?
Troppo spesso abbiamo visto sindaci, membri delle istituzioni e politici fomentare l’odio razziale, con l’unico scopo di distogliere l’attenzione delle persone dai veri problemi: la precarizzazione della vita e del posto di lavoro; la crisi economica e la difficoltà per le persone ad arrivare a fine mese; l’insicurezza sul lavoro. Dall’altra parte, abbiamo un maggior arricchimento di dirigenti, managers, imprenditori e politici, mentre  una fetta sempre più ampia della popolazione si sta impoverendo.
L’odio nelle persone è fomentato da questa situazione critica (ma chi ci governa abilmente vuol spostare l’attenzione su altre cose) in cui l’immigrato pur di rimanere in Italia, grazie alle leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini, accetta un lavoro sottopagato e che lo sfrutta, e spesso vivono ammassati in appartamenti fatiscenti per riuscire a pagare gli affitti, come nell’800.

Denunciamo quindi questo clima giustizialista , in cui l’odio è fomentato dai sindaci sceriffo e dai politicanti che fanno leggi, editti e carte per colpire i più deboli, gli emarginati ed i poveri, contribuendo strumentalmente a fomentare rancore tra italiani e  immigrati.
Se fossero persone decenti, Vignali e Monteverdi si sarebbero già dimessi. Se fossero persone decenti, quei torturatori in divisa sarebbero già altrove. Se fossimo in una città decente, migliaia di parmigiani sarebbero già in piazza a pretendere il rispetto delle persone, senza guardare alla nazione ed al colore della pelle.

 DELINQUENTE E’ IL POTERE CHE ALIMENTA L’ODIO
DELINQUENTI SONO I SUOI SGHERRI

04/10/2008

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