LA CRISI IN ITALIA

Il quadro generale

Negli Usa la disoccupazione è salita in ottobre al 6,5%. Negli ultimi 12 mesi hanno perso il lavoro quasi 3 milioni di persone. I prezzi delle case sono scesi mediamente del 18%. Le borse hanno perso quasi il 50%. I risparmi delle famiglie, previdenza inclusa, sono stati falcidiati dalla crisi finanziaria e dall’impennata delle rate di mutuo. Un modello di sviluppo basato sul costante incremento del debito ha toccato i suoi limiti e si è spezzato. La locomotiva Usa, che ha trainato per anni l’economia mondiale, approfittando della propria egemonia militare, tecnologica e scientifica, oltre che del ruolo privilegiato del dollaro, questa volta si è davvero fermata. L’economia mondiale è a una svolta: la sopravvivenza sarà garantita soltanto dalla capacità di raggiungere equilibri di tipo nuovo. La deriva dei mutui subprime e dei titoli tossici, il fallimento di Lehman e la serie di salvataggi bancari che l’hanno preceduto e seguito, la crisi trasversale dovuta all’eccesso di leva finanziaria, al proliferare dei derivati, alla crescita esponenziale di strumenti fuori controllo, hanno scatenato una crisi sistemica che ha portato in tempi rapidissimi ad una situazione pericolosissima, ad un passo dal collasso e dalla catastrofe. Il piano Paulson ed il ciclopico sforzo di intervento pubblico nel salvataggio delle banche, delle istituzioni finanziarie fallite e dei paesi sovrani sull’orlo del default hanno spazzato via un sistema di pensiero che aveva dominato la retorica pubblica, l’ortodossia economica e l’ideologia politica negli ultimi 30 anni. La capacità del mercato di autoregolarsi si è dimostrata una patetica frottola, quando nell’arco di poche settimane tutti i principali stati hanno dovuto stanziare la stratosferica cifra di 1.900 miliardi di dollari per tenere a galla il sistema finanziario mondiale, salvare banche e banchieri, risparmi e stabilità sociale: neanche un centesimo, invece, per miliardi di denutriti che continuano a morire di fame nella più totale indifferenza, come ha ricordato uno che di miliardi se ne intende (George Soros).Adesso sono tutti keynesiani, invocano interventi pubblici per sostenere la domanda aggregata, acclamano l’intervento dello Stato nell’economia come male minore di fronte allo spettro della catastrofe. Si incentrano le critiche sulla deregolamentazione, responsabile principale dell’irresponsabilità finanziaria e delle sue conseguenze, come la ricerca spasmodica del profitto di breve termine, il ruolo predatorio dei manager, l’immoralità delle stock option e dei meccanismi che generano, la perdita di senso “strategico” della missione aziendale. Ci si guarda bene dal riconoscere la causa ultima di quanto è successo, cioè la contraddizione di un modo di produzione capitalistico, storicamente dato, che non riesce più a valorizzare il capitale in misura adeguata attraverso la produzione manifatturiera e che eccede nella speculazione finanziaria, come ultimo tentativo di sopravvivere a se stesso, in una fase che alcuni studiosi individuano come lo stadio terminale di un sistema in via di estinzione. Una crisi di passaggio, da una formazione sociale incapace ormai di darsi una forma stabile di equilibrio sistemico, ad una nuova formazione sociale che ancora stentiamo a decifrare, con centri egemonici plurimi ed una fisionomia ancora indefinita: avremo nuovi centri e nuove periferie, nell’economia mondo, ma potremo vedere un assetto più delineato solo tra qualche decennio.Nel frattempo, è facile immaginare che le classi dirigenti di questo sistema maturo e decadente cercheranno di sopravvivere, sotto le bandiere e il credo innovatore della nuova amministrazione americana, a spese delle classi sociali subalterne, sia in termini di sfruttamento produttivo più intenso, sia in termini di distribuzione fiscale dei carichi impositivi, richiesti dal nuovo ruolo dello Stato nel sostegno al capitalismo privato. Nell’apparato industriale si darà il via ad una ondata di ristrutturazione radicale, di cui già si intravede il modello nel settore automobilistico, con tagli, chiusure, licenziamenti e delocalizzazioni, per riconquistare competitività attraverso un massiccio abbassamento del costo del lavoro. Nel sistema fiscale si tratta di prelevare, dalla quota del reddito destinata al lavoro, quelle risorse finanziarie destinate a sostenere, da una parte, le banche e le aziende in crisi, e dall’altra la spesa sociale di assistenza per garantire le fasce marginali della popolazione. Un enorme processo di redistribuzione di risorse, a danno degli sfruttati e a favore dei banchieri falliti, sotto il ricatto e la minaccia della caduta verticale della produzione, dell’occupazione, del reddito. Quanto sta avvenendo negli Usa non può che condizionare il resto del mondo. Anche l’Europa continentale, che aveva perseguito un modello di sviluppo più industriale che finanziario, ha dovuto arrendersi al contagio, ricapitalizzare le proprie banche ed attrezzarsi ad affrontare una dura recessione, con un cambiamento radicale delle proprie politiche monetarie, fiscali, economiche. Archiviata la retorica sugli aiuti di stato, tutti hanno aperto la strada ad interventi pubblici coordinati, in deroga ai criteri di Maastricht e alla rigidità della Bce.

Primus vivere, deinde philosophare.

La dimensione planetaria della interdipendenza economica non lascia fuori nessuna zona del mondo. La Cina e l’Estremo oriente, diventati negli ultimi 10 anni la vera “fabbrica” del globo, si chiedono attoniti cosa sarà delle loro riserve valutarie, detenute in dollari, in titoli del governo Usa, e quanto riuscirà ancora ad assorbire, delle loro merci, il mitico “consumatore” americano, adesso che gli ritirano la carta di credito. Anche la Russia se la passa male, dopo il crollo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime, così come l’America Latina del Brasile, Venezuela, Argentina (sull’orlo del secondo crack in 7 anni). Persino i ricchi sceicchi del Golfo, che sono intervenuti tramite i Fondi Sovrani nell’azionariato di molte banche europee e americane, osservano perplessi il crollo delle quotazioni e l’assottigliarsi dei propri investimenti, mentre il petrolio passa di mano a metà prezzo, rispetto a tre mesi fa. Una serie di Stati sovrani dalla struttura finanziaria fragile balla sull’orlo del precipizio, mentre il Fondo Monetario Internazionale, per anni emarginato, torna alla ribalta con prestiti e consigli, mentre sforna mensilmente previsioni catastrofiche sull’andamento dell’economia mondiale del prossimo biennio. Intanto l’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) prevede un aumento di 20 milioni di disoccupati su scala mondiale, con il superamento della soglia dei 200 milioni di persone inattive.Questo per chi non avesse ancora compreso su quali spalle andranno a scaricarsi i “costi dell’aggiustamento”.

Il caso italiano

In un’Europa impegnata nella difficile ricerca di un ruolo politico autonomo dagli Usa e nell’impossibile tentativo di sganciare le proprie sorti dalla debacle economica globale, il nostro paese sperimenta una situazione di particolare difficoltà. La fragilità dei conti pubblici, la maturità dell’apparato industriale, l’arretratezza della dotazione infrastrutturale, il ritardo tecnologico, l’esiguità delle risorse dedicate alla ricerca scientifica, convergono nel produrre un quadro preoccupante rispetto alla capacità di competere sui mercati mondiali e di difendere sul lungo periodo la tenuta del modello sociale vigente. A tutta una serie di difficoltà oggettive, si aggiunge la presenza di un governo (e di un blocco di governo) particolarmente feroce, deciso ad usare il randello e le maniere forti per gestire la lunga fase di aggiustamento strutturale che ci attende. L’evoluzione politica dell’ultimo triennio rimarca il blocco del sistema e la sua incapacità di ricambio interno, con il fallimento sostanziale del centro-sinistra nel proporre un’uscita dalla crisi italiana alternativa alle proposte del centro-destra. Il panorama politico si è appiattito al ribasso sull’esigenza di garantire la governabilità, la stabilità finanziaria, la riduzione della spesa pubblica e la fluidità del mercato del lavoro; le due coalizioni si sono divise solo sulle modalità di gestione della fase, con o senza il consenso sindacale, con o senza la concertazione, con o senza adeguati strumenti di ammortizzazione sociale. L’esperienza di governo del centro-sinistra non ha mai potuto contare su una vera maggioranza politica ed ha bruciato velocemente l’esile consenso che era riuscita ad aggregare rispetto alla propria proposta politica: i più disincantati sono stati, fin da subito, i ceti popolari che avevano creduto nel governo Prodi e vi avevano riposto ragionevoli attese di cambiamento. Nessuna di queste speranze ha trovato soddisfazione, perché il governo ha in pratica riconfermato a grandi linee tutta l’impostazione politica precedente. Conferma del ritiro delle truppe dall’Irak, ma rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Riforma delle legge Maroni sulle pensioni con eliminazione dello “scalone”, ma riconferma dell’impianto di fondo sulla previdenza integrativa e addirittura un peggioramento sui criteri di uscita dopo il 2011. Nessuna abolizione della legge Biagi, ma rimodulazione delle flessibilità sul mercato del lavoro. Nessuna tassazione delle rendite finanziarie, ma mantenimento degli impegni sul cuneo fiscale a favore dei padroni e delle imprese. Nessuna correzione del fiscal drag a favore del lavoro, ma abbassamento delle aliquote sui redditi d’impresa, così come trasferimenti pubblici e sgravi fiscali per le aziende. La occhiuta sorveglianza dei conti pubblici, l’aumento della pressione fiscale, il taglio dei servizi hanno finito per spezzare quel fragile equilibrio politico su cui si reggeva la coalizione, riuscendo nella non facile impresa di deludere tutti: le classi popolari per il venir meno di ogni speranza di cambiamento sul terreno della redistribuzione del reddito e del mercato del lavoro, i ceti medi per i risultati conseguiti sul terreno della lotta all’evasione fiscale e la fine della logica dei condoni. I numerosi compromessi digeriti dalla sinistra radicale, appartenente alla coalizione, sono stati fatali nel determinarne la catastrofe elettorale, ma non sono stati sufficienti a compensare la debolezza intrinseca dovuta a quelle componenti moderate che non erano disposte a tollerare alcuna apertura sociale nel programma del governo. La nascita del P.d. e la svolta veltroniana hanno fatto il resto, minando il governo dall’interno, in direzione di una svolta verso il centro che si è tradotta in una disfatta elettorale senza precedenti, dalle conseguenze di lungo periodo.Il movimento sindacale si trova quindi a muoversi su un terreno assai deteriorato, con una fallimentare esperienza di governo “amico” ormai alle spalle e con un governo di centro-destra tornato al governo dopo soli due anni, cavalcando temi qualunquisti e razzisti, sfruttando pulsioni emotive dettate dal senso di insicurezza e di paura diffuse e radicate soprattutto in quelle componenti sociali che in teoria dovrebbero votare a sinistra. I primi provvedimenti del nuovo governo confermano le peggiori previsioni possibili sulle reali intenzioni della coalizione. L’eliminazione demagogica dell’Ici sulla prima casa finisce per drenare risorse a quegli enti locali sempre più indebitati e sempre più in difficoltà nel finanziare la spesa corrente, con l’ovvio preludio ad un taglio dei servizi sociali e all’innalzamento delle loro tariffe. La scure si sta abbattendo sul pubblico impiego ed in particolare sulla scuola, con un attacco frontale alla qualità del servizio pubblico, all’occupazione del settore, alla dimensione delle risorse destinate alla ricerca e all’università. L’attacco ai “fannulloni” del Ministro Brunetta riassume la concezione del governo rispetto al servizio pubblico, come di un affare da sistemare solo attraverso il ristabilimento della disciplina, più che come riorganizzazione complessiva in funzione dei bisogni di una società complessa.La posizione del governo rispetto alle tematiche sindacali è ben nota: trattare la riduzione dei diritti con quelle organizzazioni che si candidano al docile ruolo di controparte subalterna, senza preoccupazione alcuna di rompere l’unità sindacale. E’ la riproposizione dello schema del “patto per l’Italia” del 2001, con Cisl, Uil (e Ugl) disponibili a firmare (come nel caso dell’accordo ultimo sul pubblico impiego), ed una Cgil divisa al proprio interno tra la necessità di aderire, per continuare a far parte del teatrino sindacale, e la tentazione di resistere, con una conseguente emarginazione dalle trattative. Lo stesso tipo di contrapposizione investe naturalmente il nuovo accordo generale sullo schema della contrattazione: una agenda dettata dalla Confindustria che mira a svuotare il contratto nazionale, reintrodurre le gabbie salariali, riconsegnare alle singole aziende l’ultima parola sulla necessità di contrattare o meno, in base al proprio conto economico, aumenti salariali ricollegabili ad incrementi di produttività. E’ una rottura del modello contrattuale vigente dal 1993: non più la concertazione, che presuppone un quadro dove governo, imprese e sindacato fissano insieme un tasso di crescita dei salari compatibile con l’inflazione e la stabilità finanziaria, ma una cornice molto vaga di diritti elementari minimi che lascia spazio a veri aumenti salariali solo laddove le condizioni di profitto lo consentano, con detassazione di straordinari e premi di produttività fissati a livello aziendale. Una contrattazione estremamente frammentata, fondata sullo svuotamento del contratto nazionale di settore, concentrata nelle sole aziende più grandi, lasciando privo di tutela tutto il segmento della piccola e media impresa, dove si vanno concentrando gli effetti più pesanti della recessione in arrivo (100.000 posti di lavoro persi nell’ultimo anno). Se l’accordo del ’93 ha spostato in 15 anni 8 punti del Pil dai salari ai profitti (circa 7.000 euro annui a testa), è facile immaginare che l’azzeramento del CCNL porterà effetti ancora più devastanti sul reddito dei lavoratori.

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