Una navigazione pericolosa

Da un articolo del mensile libertario “Cenerentola”:

Le radici della crisi attuale si trovano, come abbiamo più volte scritto su Cenerentola, nel progressivo impoverimento dei lavoratori, cominciato agli inizi degli anni ’80 con i processi di deregolamentazione e privatizzazione, lanciati dalla signora Thatcher nel Regno Unito e da Reagan negli Stati Uniti. È interessante esaminare, sia pure schematicamente, il percorso che in questi decenni ha consentito di mantenere elevato il livello dei consumi americani pur in presenza di una riduzione del potere d’acquisto dei salari. Durante gli anni ’80 le famiglie erano partite con una buona dotazione patrimoniale, costruita grazie all’accumulo di risparmio derivante dai redditi percepiti nei decenni precedenti. Insomma, all’inizio c’erano “scorte monetarie” da consumare. Nel corso degli anni ’90 è stato l’ottimo andamento dei mercati finanziari a garantire la propensione al consumo, in virtù dell’ “effetto ricchezza” derivante dall’aumento del valore dei risparmi (in primis dei fondi pensione) di proprietà delle famiglie. La caduta della borsa, in coincidenza con lo scoppio della bolla della new economy, ha posto fine a quell’allegro periodo. Così, il primo decennio del nuovo secolo ha visto i consumi delle famiglie americane crescere sulla base dell’indebitamento, facilitato dal basso livello dei tassi di interesse garantito dalla Fed di Greenspan. Quando, per una serie di motivi (quali il costo della guerra in Iraq, il deprezzamento del dollaro, il riaffacciarsi di sintomi inflazionistici) la banca centrale americana ha proceduto ad aumentare i tassi, anche l’ultimo ciclo di creatività finanziaria si è concluso. Questa volta con una drammatica recessione mondiale.Potranno inventarsi qualcos’altro? Probabilmente no. Il motivo per cui vi sono limitati margini per trovare un altro “trucco” che permetta di sostenere i consumi Usa senza aumentare le retribuzioni dei lavoratori è che, negli Stati Uniti, i soldi veri sono finiti. Le scelte politiche e sociali che hanno caratterizzato le epoche sommariamente descritte sopra hanno avuto una conseguenza inimmaginabile: mettere in ginocchio la maggiore economia mondiale!Oggi, in America, i consumatori sono poveri e non vi è più nessuna istituzione finanziaria disposta a fare loro credito. La massiccia campagna di saldi varata questa estate dai negozi americani ha avuto l’effetto di attrarre frotte di entusiasti turisti europei, ma ha richiamato ben pochi statunitensi. Ecco il motivo per cui, lucidamente, la nuova amministrazione Obama sta cercando di sostituire i consumi privati con la spesa pubblica per infrastrutture, sanità e sviluppo di fonti energetiche rinnovabili. In tale contesto, l’enfasi  posta  sullo sviluppo delle energie alternative ha due precise finalità: ridurre la dipendenza degli Usa dal petrolio straniero e far ripartire un processo di reindustrializzazione all’interno del paese. Il primo obiettivo, se conseguito, permetterebbe di mettere alle strette, dal punto di vista economico, molti regimi petroliferi che oggi sono, apertamente o subdolamente, antiamericani (Venezuela, Iran, Russia, Arabia Saudita). Colpisce il fatto che lo sviluppo di energie rinnovabili sia uno dei capisaldi dell’imponente piano di stimolo varato dal governo di Pechino: sembrerebbe proprio che in questa partita Cina e America giochino nella stessa squadra. Il secondo punto, ossia la reindustrializzazione dell’economia americana, è il disperato tentativo della componente più lungimirante della classe dirigente degli Stati Uniti per ricostruire un sistema produttivo logorato da trenta anni di finanziarizzazione. Quasi tutti gli osservatori si concentrano sui danni finanziari subiti da banche e hedge fund, quando il problema centrale è, oggi, il fatto che la base industriale degli Usa si è pericolosamente assottigliata. Uno degli insegnamenti di questa crisi è che, per qualsiasi nazione, non c’è sostenibile ricchezza economica senza una strutturata capacità produttiva nell’industria.Industria significa anche lavoro per operai, formazione di manodopera qualificata, ricerca tecnologica e lo sviluppo di un indotto che permetterà di far fluire verso ampi strati della popolazione una parte dei redditi che fino ad oggi andavano altrove. Non stupisce, in tale contesto, rilevare come oggi in America vi sia un occhio di riguardo nei confronti della sindacalizzazione dei lavoratori, ritenuta un fattore in grado di aiutare il processo di redistribuzione del reddito. Infatti, per fornire una solida base alla futura ripresa, è necessario venga ricostituito il patrimonio delle famiglie americane. A questo fine contribuiranno sia fenomeni “automatici” (uno dei primi effetti della crisi è stato proprio l’aumento della propensione al risparmio degli Statunitensi), sia opportune politiche governative.Il quadro idilliaco appena tratteggiato presenta, in realtà, diverse incognite. Naturalmente, le lobby finanziarie e, più in generale, le componenti conservatrici del mondo politico ed economico Usa cercheranno di mettere i bastoni tra le ruote del presidente. Questo è ovvio. Ma non è l’unico problema che dovrà affrontare Obama e, probabilmente, neanche il principale. Il vero aspetto, del tutto nuovo per gli Stati Uniti, è che le scelte di politica economica adesso dipendono dai soldi che i dirigenti cinesi sono disposti a prestare al governo federale. La grande nazione nordamericana ha perso buona parte della sua autonomia di bilancio. La condizione delle casse statali si presenta drammatica: il documento “Economic Indicators – May 2009”, realizzato dal Council of Economic Advisers e presentato al Joint Economic Committee del Congresso degli Stati Uniti, prevede, per il 2009, un deficit del bilancio federale pari a 1800 miliardi di dollari (circa il 13% del Pil) e un debito pubblico superiore ai 12800 miliardi di dollari (più del 90% del Pil). Tali cifre indicano che il rischio insolvenza del governo degli Stati Uniti non è più un’eventualità da escludere a priori. Il disperato bisogno di prestiti pone gli Usa in una condizione di ricattabilità da parte dei suoi creditori. Questa è una novità di portata inimmaginabile che ben spiega i toni sommessi dell’attuale politica estera americana.Per garantirsi il denaro necessario a finanziare le proprie politiche interne, all’amministrazione Obama non è bastato promettere che avrebbe rimborsato il debito. L’esecutivo americano ha dovuto abbozzare un piano di rientro dal deficit, un po’ come sono stati costretti a fare i tanti governicchi che si sono alternati nella storia della fragile italietta. Secondo quanto previsto dagli Stati Uniti, nei prossimi anni il bilancio federale dovrebbe trarre vantaggio dal ritiro delle truppe americane dall’Iraq, da tagli di alcune spese pubbliche e da una maggiore pressione fiscale sui redditi più elevati. Sono indicazioni ancora troppo generiche per avere consistenza e credibilità. Come si può ben intuire, riportare a casa i soldati dal Medio Oriente comporta dei rischi di tenuta del regime iracheno, tagliare le spese pubbliche e aumentare le tasse ai ricchi è un’impresa più facile da annunciare che da attuare.Anche ammettendo che il presidente riesca a uscire dal pantano iracheno, superare gli ostacoli interni e convincere i Cinesi a continuare ad acquistare titoli di Stato Usa, non vi è garanzia che il suo progetto abbia successo. Si troverà un’efficiente alternativa energetica al petrolio? La lobby petrolifera riuscirà ad impedirne l’adozione? Le imprese Usa vinceranno l’agguerrita concorrenza internazionale in tale campo? Il Congresso approverà la riforma sanitaria? Il complesso militar-industriale non vanificherà il disimpegno dalla guerra perseguito dal presidente? Questi sono solo alcuni dei tanti punti interrogativi che costellano il percorso del mandato di Barack Obama!Inoltre, non va trascurata la possibilità che, alla luce della difficile situazione in cui versa l’America, si inneschino dinamiche incontrollate di fuga dal dollaro. A giustificare tale azione potrebbero concorrere ragioni tanto economiche, quanto di ordine geopolitico. Le prime potrebbero motivare molti paesi esportatori di materie prime e di manufatti, le seconde potrebbero invogliare potenze (piccole e grandi) antagoniste degli Usa come Russia, Venezuela, Iran. La possibilità di un’improvvisa ondata di vendite di titoli denominati in dollari sui mercati mondiali espone il sistema monetario internazionale ad un permanente pericolo di collasso. La spiacevole verità è che questa crisi ha una valenza sistemica e non solo non durerà poco (come invece vorrebbero convincerci) ma, soprattutto, sta sconvolgendo il quadro economico e geopolitico mondiale. Le cose non torneranno più come prima. Faremmo bene a tenerne conto.

Toni Iero

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